Un film che ammalia, diverte, stupisce, spiazza. In una parola: geniale.
Abituati come siamo a commedie scontate, The French Dispatch di Wes Anderson, grazie al passaparola fenomeno del momento al botteghino (che ringrazia, visto il generale calo di spettatori), ci lascia letteralmente incantati a ogni inquadratura.
Come una scatola magica, una boccata d’ossigeno in quest’autunno-inverno dal cartellone cinematografico pure ricco ma, diciamolo, un po’ triste come la pandemia che ritorna con le sue varianti.
Quattro storie e un funerale
Vabbè, non tutti l’hanno visto (ma il consiglio, se non si è capito, è uno solo: non perdetelo), perciò riassumiamo così. È morto il direttore di una rivista e i suoi migliori giornalisti lo commemorano a mo’ di necrologio con una serie di reportage precedentemente pubblicati sul French Dispatch.
Chi in bici per raccontare l’immaginaria cittadina francese che ospita la redazione. Chi con la storia del gallerista che scopre in una lurida prigione un ergastolano diventato un grande artista per amore della sua carceriera. Chi rievoca le rivolte studentesche che hanno agitato la città. Chi ricostruisce come un commissario abbia risolto il caso del rapimento del figlio.
Quattro episodi, in realtà quattro storie dove ogni inquadratura è un quadro, un’opera d’arte ricca di citazioni che spazia dal bianco e nero al disegno, con prodezze tecniche incredibili e mai esibite. Una lucida poetica follia. Un, narcisistico perché no, messaggio d’amore al giornalismo vecchio stile. O, semplicemente, il piacere del puro cinema.
Una gara di bravura
E che dire degli attori? Geniali, bravissimi, tutti. Affollato di star, da Bill Murray a Adrien Brody e Benicio del Toro, da Owen Wilson a Timothée Chalamet. Sono però forse le attrici a dare sempre il tocco anche autoironico in più, da Tilda Swinton (un’icona, al quinto film con Anderson) a Frances McDormand, da Lea Seydoux (la guardia carceraria che posa nuda per il prigioniero artista, e chi se la scorda più?) a Lyna Khoudri.
E sono solo alcuni dei protagonisti perché nel bizzarro microcosmo di Wes Anderson ad ogni scena entrano volti conosciuti. Vedi Edward Norton e Christoph Waltz, anche solo per ruoli secondari. È una caratteristica di Anderson, del resto, animare i suoi film con personaggi che vanno e vengono, come nel suo premiatissimo Grand Budapest Hotel.
È il cinema, bellezza
Una cosa è certa. Questo film va visto in sala e non solo per la magia nostalgica di cosa il cinema e anche il giornalismo potrebbero essere, ma purtroppo non sono più. Va visto in sala anche per il fascino che emana e che merita un’uscita da casa, che di serie viste sul divano non se ne può più. Forse la risposta giusta a chi sostiene che le sale cinematografiche sono roba d’altri tempi. Quel geniaccio di Wes Anderson in 108 minuti fa ricredere tutti. Avercene di tempi così.
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