Nessuno ha avuto una storia altrettanto lunga, nessuno ha avuto maggiore fertilità e neppure è mai stato così curioso da voler conoscere tutta la terra del vecchio continente. Questi sono gli avvenimenti che riguardano l’uva moscato, indefessa viaggiatrice, instancabile seduttrice, infine madre e poi nonna di un numero imprecisato di figli e nipoti con il medesimo vizio, quello di mettere radici.
La storia dell’uva moscato inizia nell’antica Grecia, lì era conosciuta come anathelicon moschaton e, ad appena quattro passi in direzione Nord-Ovest, i romani ricondussero quella specie al genere dei vitigni aromatici e le diedero il nome di uva apianae, dal latino lapes, uva così dolce da attirare le api. Per molto tempo l’uva moscato ha perciò patito questo equivoco di fondo: nella ricerca dell’origine del nome si credeva che questo avesse qualcosa da spartire con mosche, api o insetti di vario genere.
Invece, si è scoperto che il nome moscato discende dal sanscrito muskà e dal persiano musk e il termine veniva utilizzato per dire che l’uva esprimeva una sensazione aromatica: fragranze balsamiche di menta, salvia, anice e citronella, o note fruttate nello spettro compreso tra il melone, la susina, la pesca bianca e la mela verde.
L’uva moscato, poi, ha molteplici varietà, ma i più recenti studi hanno permesso di individuarne il capostipite: il moscato bianco. Proprio a questa varietà è stato affidato il felice compito di moltiplicare la specie, ad esempio in Sicilia.
Da girovaga, l’uva moscato ha risalito la penisola fino a fermarsi, difficile a dirsi, forse nel Nord della Francia, forse in Svizzera dalle parti di Ginevra, oppure nel Sud della Germania, ma in ogni caso lì si è fermata per incontrare e sedurre l’uva Chasselas. Dall’incrocio ha preso vita il moscato fior di arancio. Il moscato bianco però non è solo madre: è anche nonna nobile di altri vitigni.
Attratta probabilmente dalle isole, nel suo lungo girovagare si è attardata in Corsica e lì ha incontrato l’uva Sciaccarello, dando vita al moscato violetto che, una volta tornato nella penisola, ha incontrato il Sangiovese. Dalla loro unione è nato il Ciliegiolo che oggi ritroviamo nella Doc di Sovana in provincia di Grosseto, oppure nella Doc Amelia nella provincia di Terni, oppure nell’Igt di Liguria di Levante.
Di madre ancora incerta, ma di sicuro padre, il Moscato bianco nel lungo girovagare ha generato altri figli, l’Aleatico in Toscana, il Brachetto in Piemonte, il Moscato di Scanzo in Lombardia, il Moscato di Terracina nel Lazio, il Moscato Giallo nel Nord Est, il Moscato Nero d’Acqui, il Moscato Rosa in Trentino.
Nel mondo poi, il Moscato bianco ha sempre girato. E in ogni posto in cui è stato ha avuto un nome diverso.In Francia forse il nome più insolito, Muscat de Frontignan. Questo poiché durante il secondo, primo secolo avanti Cristo, è stato portato dai Romani durante la colonizzazione dei Paesi di Linguadoca. Nel paese di Frontignan, con i piedi immersi nell’acqua, il moscato è riconosciuto come lì presente dal 1117 d.c., da quando i monaci dell’Abbazia di Aniane ricevettero in regalo una vigna coltivata con uva moscato.
In Portogallo, invece, il moscato porta il nome di Moscatel galego branco, in Spagna Moscatel de grano menudo, in Francia ha anche altri nomi come Muscat à petits grains blancs, in Ungheria è chiamato Sarga Muskotaly e in Romania Tamaioasa Romaneaska.
Insomma, ovunque è andato il moscato bianco si è fatto riconoscere, non ha più abbandonando i luoghi in cui è stato coltivato e ha assunto il nome voluto dalle genti che lo hanno piantato difeso e raccolto. Eppoi, quando è stato possibile, il moscato, si immagina con grande sollazzo, si è anche preoccupato di moltiplicare la specie.
A livello normativo il riconoscimento che è stato dato alla denominazione moscato può essere fatto risalire al primo dopoguerra e all’accordo bilaterale tra l’l’Italia e la Francia del 18 luglio 1949, n. 766. L’accordo, a cui ha fatto seguito la legge di ratifica del 18 luglio 1949 n. 766, è indirizzato alla protezione dei nominativi di origine e alla salvaguardia delle denominazioni di certi prodotti. L’impegno reciproco di ciascun Paese è stato quello di dare protezione nel territorio domestico alle denominazioni riconosciute nell’altro Paese.
In tale contesto è facile comprendere le ragioni per le quali il moscato abbia abbracciato buona parte delle denominazioni italiane che vennero riconosciute dalla Francia nel 1949. Largamente diffusa sul suolo italico, a seconda della varietà dell’ambiente geografico in cui è stata coltivata e dei fattori naturali che ne hanno condizionato la crescita e il raccolto, l’uva ha garantito al vino prodotto quei connotati di unicità e riconoscibilità legati al territorio che da ultimo l’hanno resa degna di salvaguardia.
Perciò, tra le denominazioni riconosciute nel 1949, troviamo in Piemonte il Moscato d’Asti e di Canelli, in Lombardia il Moscato di Casteggio, in Puglia il Moscato di Salento e il Moscato di Trani, in Lucania (ora Basilicata) il Moscato di Lucania, e in Calabria il Moscato di Cosenza. Non da meno è l’espressione del moscato nelle isole dove in Sardegna è stato riconosciuto il Moscato del Campidano e il Moscato del Tempio, e in Sicilia il Moscato Lo Zucco, il Moscato di Noto, il Moscato di Siracusa e il Moscato di Pantelleria.
Da allora ad oggi le varietà di moscato che hanno trovato protezione con la denominazione di origine sono sessantacinque e il vino moscato è riconosciuto come indicazione geografica protetta in buona parte del territorio italico.