Se c’è un attore che, da vero genio, non si è mai montato la testa, quello è Antonio Albanese. Non ha mai dimenticato dove è nato e cresciuto, a Olginate, sul lago a due passi da Lecco, da genitori siciliani che qui erano arrivati a cercare lavoro. Non ha mai rinnegato gli anni Ottanta: anni duri, la gioventù trascorsa a lavorare al tornio, unico hobby le dirette nelle radio locali, fino alla svolta grazie al diploma nel 1991 della Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi di Milano.
Li ha ricordati quegli anni, Antonio Albanese, in quello che è stato un po’ un amarcord in salsa lariana, ospite d’onore al Lecco Film Fest che da giovedì 29 luglio a domenica 1 agosto ha portato cinema e cultura (e tanti altri ospiti dello spettacolo e non solo) nella città che cambia pelle – più turismo e cultura, più innovazione e meno fabbriche – grazie anche e soprattutto alla tenacia di don Davide Milani, il prevosto che ama il cinema ed è presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo nonché direttore della rivista Il Cinematografo.
L’occasione per fare tornare a Lecco l’amico Albanese, del resto, era ghiotta: l’inaugurazione della nuova sala cinematografica Nuovo Aquilone che, dopo una radicale ristrutturazione, è tornata a nuova vita a pochi metri dalla Basilica di San Nicolò. Era una polverosa sala dell’oratorio chiusa da quarant’anni; ora è un gioiello da 140 posti che mixa modernità e stile liberty, dove cinema e teatro, ma anche incontri culturali, saranno di casa tutto l’anno.
E chi se non Antonio Albanese poteva battezzare il sogno diventato realtà di quell’altro genio di don Davide? “Glielo avevo promesso ed eccomi qua”, ha esordito Albanese, prima della proiezione delle prime due puntate della seconda stagione della serie “I topi”, da lui scritta e diretta. “Ma vi rendente conto della fortuna che avete a Lecco? Le sale cinematografiche purtroppo chiudono e voi ne aprite una! Qualche giorno fa ero a Riccione a una convention di esercenti cinematografici e quando ho detto che sarei venuto a Lecco a inaugurare un cinema c’è stata un’ovazione. Il cinema, come il teatro, è terapia, è pura felicità, soprattutto in un momento difficile come questo”.
Una bella occasione già, perché poi, in piazza davanti a un pubblico numeroso, Antonio Albanese si è confessato per un’ora buona, parlando appunto della sua vita e della sua ormai lunga carriera, dei personaggi che lo hanno reso famoso (“Il mio preferito resta quell’ingenuo di Epifanio, invece Cetto La Qualunque mi imbarazza sempre un po’”), dei personaggi e registi con cui ha lavorato (“Paolo Rossi, Michele Serra, i fratelli Taviani, Pupi Avati, Carlo Mazzacurati, tutti importantissimi”), dei colleghi che lui, da giovane cabarettista, guardava con ammirazione e soggezione (“Quando Giorgio Gaber mi invitò a casa sua per l’agitazione arrivai tre ore prima”).
Proprio Gaber è rimasto per lui un faro, un modello: “Ripeto ciò che cantava lui: libertà è partecipazione. Anche in un periodo come questo, così complicato per tutti a causa della pandemia, sono convinto che la rabbia non porti da nessuna parte. Dobbiamo stare uniti”.
Una grande carriera quasi trentennale, da attore, regista e sceneggiatore, quella di Albanese, che resta però l’uomo d’acqua dolce del suo primo film. “Amo la normalità, che purtroppo ci sta sfuggendo. E cerco di vivere a contatto con la natura, lontano dalle mode. Ma quali abiti firmati e tatuaggi… Io il mio tatuaggio ce l’ho qui, sul polso”, e mostra la cicatrice di una ferita lasciata dal vecchio tornio al quale lavorava quando era un operaio. Quanto ai progetti futuri, a parte la nuova pellicola che sta girando (e magari un film proprio sulla sua gioventù lecchese e sulla storia della sua famiglia, come gli ha suggerito la figlia) presto, il 26 agosto, Antonio Albanese e Paola Cortellesi torneranno nelle sale con il sequel di “Come un gatto in tangenziale” (10 milioni di incassi, mica male). “E già, si ritorna a Coccia di Morto. Ma sapete che quella spiaggia del litorale romano ora è diventata una meta turistica e tutti vogliono andarci?”.
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