Diario di un viaggio nel tempo: dal 1917 ad oggi. Un percorso tra trincee, gallerie e vite vissute ai tempi della Prima Guerra Mondiale sull’Altopiano di Asiago. Una esperienza che vale più di molti libri di storia.
Comincio subito con il darvi la notizia geniale, vale a dire che in Italia esiste un’opera pubblica che regge da più di cent’anni, senza crolli, fallimenti o sequestri della Procura: si tratta del complesso delle 52 Gallerie, che da Bocchetta Campiglia (vicina al passo Xomo) porta al Pasubio, in zona Altopiano di Asiago.
Dettagli tecnici
Committente: il Re d’Italia
Appaltatore: V° Reggimento Genio E.I., con la collaborazione di sei centurie di lavoratori
Tempo di realizzazione: nove mesi (da febbraio a novembre del 1917)
Attrezzature: piccone, dinamite, muli e parecchie imprecazioni (tutte rigorosamente in veneto)
Lunghezza del percorso “coperto”: metri 2.335, su 6.555 di tracciato complessivo
Corrispettivo d’appalto: £. ZERO (l’opera non ha avuto costi, essendo stata costruita in tempo di guerra).
Già questo dovrebbe far saltare sulla sedia ministri, vice ministri, portavoce e portaborse di tutti i Ministeri dei Lavori Pubblici che si sono succeduti dalla fine della Grande Guerra ad oggi, ma questa è un’altra storia.
Un’impresa eccezionale tra trincee e panini alla soppressa
Tornando a noi, nel luglio del 2017 io e il mio “compare di nozze” Dino – mezzo austriaco – decidiamo di imbarcarci nell’impresa di percorrere il tracciato integrale, che si sviluppa sino ai c.d. Dente Italiano e Dente Austriaco. Sono due speroni di roccia che si fronteggiano a neanche 50 metri e dai quali i rispettivi eserciti si scambiavano “complimenti” a colpi di granate, mine sotterranee e gas mostarda, che aveva la simpatica abitudine di tornare indietro.
In verità, le 52 gallerie finiscono in corrispondenza del rifugio Generale Achille Papa, da cui parte la seconda parte del tracciato, che porta al fronte e alle trincee, percorribili ancora oggi: si tratta di un percorso molto meno battuto, vuoi per la stanchezza che scoraggia parte degli escursionisti, vuoi per i problemi digestivi causati dal panino alla soppressa veneta che interessa altra parte dei trekker.
Il tracciato: un museo a cielo aperto
Come detto, si parte da Bocchetta Campiglia e da subito è chiaro che si tratti di un museo a cielo aperto, vista la presenza di tavole esplicative del periodo e dell’opera: l’affluenza è sostenuta e resterà tale sino al rifugio, ma questo è inevitabile se si sceglie un fine settimana estivo.
L’inizio del tracciato è in corrispondenza della prima galleria, che incute subito un certo rispetto – nonostante il bello venga dopo – essendo inevitabile immaginarsi come dovesse essere a quel tempo, quale fatica e quale freddo i soldati abbiano dovuto patire, tanto più che i lavori terminavano a fine novembre e che, allora, di neve ce n’era parecchia.
La Galleria n. 19
La strada sale progressiva e senza strappi, alternando panorami notevoli sulle vette circostanti a gallerie più o meno lunghe, sino a quando si arriva alla n. 19, allora cambia tutto. Si tratta della galleria più lunga (320 metri), con sviluppo “a cavatappi”, per di più in salita, che incredibilmente mantiene costante larghezza e pendenza, nonostante i mezzi di allora non prevedessero certo l’uso di strumenti elettronici.
Insomma, una prova definitiva – ove ve ne fosse stato ancora bisogno – delle straordinarie doti ingegneristiche degli uomini del V°, che senza mappe o studi preventivi di fattibilità, riuscirono a domare lo sperone roccioso, sormontandolo e scavallandolo, per poi proseguire dritti al Pasubio.
Nel percorrerla abbiamo fatto uso delle lampade frontali, ma in tutta sincerità basta la pila di un qualunque smartphone, considerazione che vale anche per tutte le altre gallerie.
Un cannone orientato verso valle
Proseguiamo oltre ed entriamo in un’altra galleria molto interessante, che ancora presenta un cannone di artiglieria leggera da montagna che affaccia da un varco naturale ed è orientato verso la valle (chissà se era così anche allora, a noi piace pensare di si, anche perché avrebbe senso).
Devo dire che l’emozione non solo non ci lascia mai, ma cresce ad ogni passo, perché più si è calati nel contesto, più si comprende, o meglio, si intuisce cosa dovesse essere allora la paura, il gelo, la fatica e la fame: il tutto buttato addosso a ragazzi che, raramente, arrivavano a vent’anni e che, per molti, quell’età non sarebbe mai arrivata.
Un sentimento di patriottismo sano
L’onda emotiva suscita in me un sentimento patriottico ai limiti del parossismo, che mi porta a minacciare il malcapitato Dino di divulgare la sua origine “nemica”, poi però desisto, sia per affetto, sia perché, in caso di linciaggio, sarei dovuto tornare con i mezzi.
Nel procedere ci scambiamo emozioni e immagini del tempo che fu, poi ci viene la curiosità di guardare gli altri escursionisti per verificare se il nostro stato d’animo fosse o meno condiviso e allora ci rendiamo conto delle innumerevoli sfaccettature del genere umano.
Un humus sociale di ogni tipo
C’è di tutto. Anziani ai limiti della commozione. Padri che cercano, inutilmente, di spiegare a figli adolescenti dove fossero e cosa fosse successo, inesorabilmente sconfitti da tamagotchi et simila. Ragazzotti muniti di occhiali a specchio che incedono con stereo a palla che diffonde musica. Esseri umani simili a noi, con espressioni a tratti compite a tratti incredule.
Ma va bene così, la montagna è di tutti e deve essere vissuta.
Al rifiugio: solo in pochi proseguono
Arriviamo finalmente al rifugio e, dopo un memorabile panino con soppressa, ci rimettiamo in cammino per raggiungere i Denti e le trincee: il primo tratto è un po’ duro, sia per il dislivello già accumulato (circa 800 metri), sia per il defluire del sangue alla soppressa anzidetta.
Finalmente siamo soli, c’è pochissima gente che, tra l’altro, sta già guadagnando la via della discesa.
Una immersione nel 1917
È davvero emozionante, non tanto e solo per le ulteriori gallerie, quanto per le camminate nelle trincee, che davvero raccontano molto più dei libri letti sino ad oggi. Sembra di rivivere le pagine di Lussu (Un anno sull’Altopiano), si sente solo il vento e l’eco lontano di molte anime.
Sembriamo due bambini in un parco giochi. Siamo felici di essere lì e di vivere quell’esperienza davvero forte, ma allo stesso tempo siamo consapevoli di cosa significhi quel posto e del rispetto dovuto a chi non è tornato.
Quindi nessun senso di colpa o di inadeguatezza, nell’assoluta certezza che la visita di due amici abbia fatto piacere a chi si aggiri ancora da quelle parti.
Giunge il tramonto
È quasi il tramonto, per cui decidiamo di salutare e scendere, percorrendo quella che era la carrozzabile che permetteva l’approvvigionamento delle linee prima delle 52 gallerie: il percorso è molto facile e rilassante, con un suggestivo cimitero militare sul fianco di un colle.
Arrivati al rifugio di pernotto ci guardiamo soddisfatti e promettiamo che l’anno successivo avremmo fatto l’Ortigara … promessa da marinaio, ma c’è ancora tempo e tanta voglia.
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