Chiunque apprezzi l’uva Pinot, Sauvignon, Silvaner, Riesling, Lagrein, Aligoté, Chardonnay, Gamay dovrebbe ringraziare due imperatori romani Domiziano e Probo, i quali hanno involontariamente dato vita a ciò che oggi sono i tre quarti delle varietà d’uva presenti nel continente europeo, ridisegnando il mercato vitivinicolo di allora con gli editti del 92 d.C e 281 d.C.
È interessante osservare come nessuno dei provvedimenti citati volesse permettere la proliferazione della vite; né il primo per quantità né il secondo per qualità.
Domiziano dal punto di vista quantitativo provò a regolamentare il mercato inseguendo l’utopia di Roma sempre e per sempre autosufficiente. Poi, quando si accorse di avere oltre 150.000 bocche da sfamare, perché questa era la misura assistenziale imposta alle casse dell’Impero nel primo secolo dopo Cristo, ha dato l’ordine di estirpare tutte le viti che non si trovassero nel territorio italico. Roma necessitava di grano e la coltivazione della vite, molto più redditizia del primo, ne aveva preso il sopravvento, ragione per cui è stato pronunciato l’editto in parola.
Probo, invece, per contenere i costi di trasporto del vino fino ai confini dell’Impero, oramai diventati insostenibili, ha ordinato e imposto che a Nord venisse coltivato solo il vitigno Heunisch. Là, sopra Roma, erano presenti oltre 450.000 uomini appartenenti alle legioni che avevano incessantemente sete di vino e il loro ristoro doveva essere tenuto in debito conto.
Grazie a quest’ultimo provvedimento, che avrebbe dovuto imporre a tutta quella parte del mercato situata a Nord dell’Impero il monovitigno, è stato possibile creare quelli che oggi sono i tre quarti del panorama viticolo europeo, grazie agli incroci di quel monovitigno con le uve autoctone dei luoghi in cui è stato coltivato.
Di quanto appena raccontato è interessante osservare come le due spinte regolatorie incentrate sulla quantità e sulla qualità di uva prodotta rappresentino oggi il perimetro normativo del mercato comune vitivinicolo.
Tuttavia, prima di arrivare alla struttura odierna del mercato comune, vero punto di svolta per produttori e consumatori, per buona parte dei secoli trascorsi il mondo del vino ha vissuto non poche tribolazioni.
La regolamentazione del mercato comune vitivinicolo dal punto di vista quantitativo ha quale stella polare il compito di assicurare un tenore di vita equo alla popolazione agricola migliorando il reddito individuale di coloro che lavorano nell’agricoltura.
La storia del mercato vitivinicolo, invece, ha sempre avuto altri obiettivi, la produzione del maggior quantitativo di uva possibile, ma non certo per la ricchezza del contadino o del proprietario del fondo. In epoca statutaria, attorno al 1270 d.C, era uso delle legislazioni disporre il divieto di raccogliere uve prima della vendemmia e disporre il divieto di entrare nelle vigne se non nel periodo compreso tra la fine della vendemmia e la potatura.
Per non parlare della (povera) sorte degli animali domestici trovati nelle vigne oppure delle punizioni inferte a chi veniva colto all’interno delle coltivazioni d’uva senza esservi autorizzato. Lo statuto di Tortona del 1329, ad esempio, consentiva al magistrato di disporre la tortura per ottenere la confessione di chi fosse stato trovato dentro le vigne di notte.
Tale rigore, però, non è destinato alla conservazione del prezioso raccolto in favore del contadino o del proprietario. Il rigore, come quello di indicare una data fissa per l’inizio delle operazioni di vendemmia, era giustificato dal solo fatto che assieme al proprietario del terreno doveva essere presente anche un esattore che provvedesse alla riscossione delle “decime”; insomma si parla di riscossione di tasse, tributi, balzelli e gabelle di vario genere. Maggiore era il quantitativo di uva prodotta maggiori potevano essere le imposte gravanti sul fondo e i dazi collaterali sul trasporto del vino da un posto all’altro fuori comune.
Dal punto di vista qualitativo, poi, anche solo prendendo a riferimento gli inizi del 1900, le cose – se possibile – sono andate anche peggio. Pratiche di cantina che utilizzavano l’ossido di piombo per fermare l’acetificazione, vini con aggiunta d’acqua per aumentarne il volume, oppure, prassi di aggiungere acqua e zucchero ai marc residui per produrre un’altra partita di vino sono state le pratiche che, in conclusione, hanno addirittura impedito di capire cosa potesse definirsi realmente vino.
Tali pratiche scorrette hanno portato la Francia a legiferare in materia. Il 3 settembre 1907 è così stato definito cos’è il vino: il prodotto della sola fermentazione alcolica di uva fresca o del succo di uva fresca. In seguito, la Francia ha disciplinato in maniera organica la materia introducendo il 30 luglio 1935 le A.O.C per garantire pratiche certe di produzione per alcune denominazioni.
Stessa cosa è accaduta in Italia con il con il regio decreto legge n. 2033/1925, del 15 ottobre 1925, in materia di repressione delle frodi, che ha definito il vino come il prodotto della fermentazione alcolica del mosto di uva fresca o leggermente appassita in presenza o in assenza di vinacce.
Le denominazioni in Italia, poi, sono arrivate solo grazie alla Comunità Europea che, con l’articolo 4 del regolamento CEE 24/1962, ha imposto all’Italia la normativa sulle denominazioni di origine concretamente introdotte con il d.p.r. del 12 luglio 1963 n. 930.
Per chi invece avesse interesse a conoscere oggi come è strutturato il mercato comune nel settore vitivinicolo può trovarci qui il 3 novembre dalle 17 alle 18.