È il deejay più famoso d’Italia, un vero genio della radio. “Sono un ragazzo fortunato”, ammette come nella canzone del suo amico Jovanotti. Ma la verità è che Linus ha, oltre a talento da vendere, anche un’altra dote geniale: è disponibile, se lo chiami al cellulare per un’intervista ti dà retta e risponde. Insomma, non se la tira, neanche adesso che si ritrova direttore editoriale di tutte le radio del gruppo Gedi. Anche questo fa di lui un fuoriclasse, un vero maratoneta. Nello sport, ma soprattutto nella vita.
Linus, una vita in onda. Da bambino povero e poco amante della scuola nella periferia milanese degli anni Sessanta a inventore di un nuovo modo di fare la radio.
“La predisposizione c’era fin da piccolo, con un padre musicista dilettante, una sorella e un fratello (il dj Albertino, chi non lo conosce, Ndr) come me cresciuti a pane e canzoni. Insomma, qualcosa nel Dna c’era. Poi, però, ovviamente servono anche costanza e impegno. Ma il fatto che io sia davanti a un microfono da più di 40 anni lo dimostra”.
Dopo le prime radio private degli anni Ottanta, il grande balzo con Radio Deejay, della quale dal ’94 è direttore artistico. Racconti.
“Ho iniziato a fare la radio per gioco, e un gioco ho sempre continuato a considerarla. Tutto qui. Lo dico nel mio ultimo libro “Fino a quando”, uscito in aprile per Mondadori, in cui confesso molto di me, del mio passato, dell’infanzia e dell’adolescenza nella periferia di Milano, della gavetta vera. Se siete cresciuti come sono cresciuto io, ci vuole un bel coraggio a chiamare lavoro il semplice parlare. Poi le prime radio libere, gli incontri importanti, l’amore per mia moglie Carlotta, la passione per la corsa, gli acciacchi perché l’età avanza. È forse la prima volta che faccio collimare il personaggio Linus con la persona Pasquale Di Molfetta. Ma sono sempre io, due facce della stessa medaglia”.
Ogni mattina, alle 10, è al microfono di “Deejay chiama Italia”. Come ci si sente, dopo trent’anni?
“Una routine quotidiana meravigliosa, ma che come tutto, inevitabilmente, un giorno finirà. Per ora però vado avanti. Anzi: le due ore del mattino con Nicola Savino sono più che mai la parte più bella della giornata. E con gli anni il programma è cresciuto, è cambiato, abbiamo saputo rimanere al passo con i tempi e con i cambiamenti del pubblico che ci ascolta”.
Parole e non solo canzoni. La sua, ai tempi, è stata un’innovazione geniale. E ancora attuale.
“Già, anche perché la musica ormai ognuno se la può fare da sé e può portarla ovunque come e quando vuole. Con Spotify e gli altri portali di streaming le canzoni certamente non mancano. Noi ci siamo smarcati facendo una radio che un algoritmo non può riprodurre. Lo dico sempre agli altri del gruppo: la sola cosa che nessuno può copiarci è la nostra personalità”.
E da poco ha iniziato una nuova avventura, come direttore editoriale del polo radiofonico del gruppo Gedi (radio Deejay, Capital e m2o).
“È una nomina che ha fatto molto scalpore, anche perché è coincisa con il passaggio di proprietà del gruppo, e di solito in questi casi si tende a rimpiazzare il management, non a promuoverlo. Ma è stata solo l’ufficializzazione di un ruolo che in pratica ricoprivo già da sempre”.
La radio, comunque, non passa di moda. Mai come ora gode di ottima salute.
“Lo dicono i dati. E lo percepisco quotidianamente. Il primo lockdown di primavera mi ha fatto capire molte cose, per la prima volta mi sono reso conto di quanto sia importante, per chi fa il mio mestiere, ascoltare e non solo farsi ascoltare. Solo nel mio programma, dai 1.500 messaggi quotidiani dell’era pre Covid siamo passati a quasi 4.000 al giorno. Perché la radio è empatica, è intima, è amica. In momenti difficili come questi, è la sola a portare attualità, leggerezza. E soprattutto vicinanza. La tv, è ansiogena, rigida, incapace di offrire alternative”.
Dai suoi contatti giornalieri vede differenze tra la prima e la seconda ondata del virus?
“Questa primavera era un lockdown vero, ora è un po’ fasullo. E dove prima c’era unione, ora c’è un malumore di fondo che non è piacevolissimo. La gente è stanca, non vede una prospettiva. Colpa probabilmente dell’incapacità di fornire informazioni e linee guida chiare e comprensibili. Eppure è in questi momenti che mi riconcilio col mio lavoro. Strano a dirsi, ma è stata una cosa orrenda come il Covid a farmi capire quanto la radio sia importante. E quanto sia fortunato a farla”.
Quindi ciò che scrive in “Fino a quando” lo prendiamo come uno scherzo.
“Uno scherzo no, diciamo una prova. Ho provato a immaginare (spieghiamolo a chi non lo ha letto il libro) un Linus che decide che è arrivato il momento di non andare più in onda. È il giorno di un Natale surreale. “Basta, da oggi microfono spento, quasi lo annuncio: è stato bello, ma saluti a tutti. Coraggio, il mondo continuerà, finisce solo la quotidianità, il rito. E finisce perché solo io posso decidere che è ora”.
Sarà, ma leggere sulla sovracopertina “Oggi è il mio ultimo giorno alla radio” ha spiazzato tutti.
“È un romanzo, tranquilli. È un espediente narrativo che mi autorizza a ripercorrere e raccontare la mia vita. Personale e professionale. Nella realtà invece non c’è una data. Semplicemente un giorno dovrà succedere”.
Non così presto, dunque. Ma quando quel giorno arriverà che farà?
“Altri progetti? Non so. Sono talmente identificato con la radio… La gente ha paura di chiedermi qualcos’altro. Mi piacerebbe solo poter dire: sono libero, non sono più fidanzato con la radio, qualcuno mi vuole?”.