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Quattro passi, un respiro: l’opera prima di Elia Zordan è un risveglio di emozioni e ricordi

Quanti di noi possono voltarsi indietro e dire di aver avuto una magnifica giovinezza, senza il minimo complesso esistenziale, sentendosi assolutamente uguale agli altri e in linea con le aspettative di chi aveva già deciso cosa saremmo diventati prima ancora che fossimo noi a scoprirlo?

Quattro passi, un respiro. Anni fa per i trentenni fu coniato il termine “bamboccioni”. Ma esiste una categoria che, soprattutto in un periodo di restrizioni come questo caratterizzato dalla pandemia, è particolarmente sotto pressione: i giovani ventenni, quelli a cavallo tra l’adolescenza e il mondo adulto, quelli che saltano dal trampolino delle scuole superiori allo spietato mondo dell’autonomia. Un salto che spinge con frenesia ad accumulare input che rischiano di schiacciare il vecchio materiale dei ricordi, la famiglia, le vecchie relazioni, per far spazio all’età adulta.

Quattro passi, un respiro

Ed eccoci a parlare di Elia Zordan, uno scrittore esordiente che con il suo Quattro passi, un respiro edito da Biplane edizioni, ci porta nel mondo di Biagio, un giovane non ancora adulto, ma nemmeno più bambino. È lui il protagonista che si trova ad affrontare il proprio percorso di crescita nel passaggio dal diploma alla vita universitaria. Dalla comfort zone di una vita normale di provincia a Portogruaro, al trasferimento per frequentare l’Università di Trieste.

Quattro passi, un respiro: l'opera di Elia Zordan è un risveglio di emozioni

Primi fallimenti e nuove relazioni

I primi fallimenti, le nuove relazioni, più stimolanti, fatte di quella diversità che si ha voglia di scoprire proprio per il fatto di non somigliare a nulla di precedente. Il sentirsi un puzzle ancora in fase di costruzione, dove esiste un pezzo mancante che sembra introvabile e che fa sentire inadeguati al cospetto del mondo esterno.  Il percorso di Biagio prosegue nella presa di coscienza dei propri limiti, del fatto che forse il fallimento è solo un successo rimandato, o che serve a indicarci una nuova rotta da intraprendere. Appare più nitido all’orizzonte che forse non c’è nulla di male a sentire il richiamo delle radici, dei piccoli riti che compongono la fibra del nostro essere che, qualunque sia, è degno di essere accettato da noi stessi prima di tutto.

Elia Zordan, qui al suo primo romanzo per il quale è stato segnalato dal Comitato di lettura della XXXI edizione del Premio Italo Calvino, ci presenta Biagio con una narrazione in terza persona, che scorre in un vero e proprio flusso di coscienza. Senza minuziose descrizioni e uso smodato di aggettivi, Elia delinea il personaggio tramite la scelta di parole evocative, poetiche, quasi onomatopeiche nel riprodurre il significato che il contesto ha per Biagio.

Stile narrativo e consapevolezza

Lo stile narrativo, quasi privo di dialoghi, si ispessisce di pari passo con la consapevolezza del personaggio principale. Il registro coinvolge tutti e cinque i sensi per portarci nei luoghi di affetto e di relazione in cui Biagio è cresciuto.

Originale per trama e tipologia di scrittura, il romanzo ci stupisce per la delicatezza delle parole, scelte con cura ed efficaci come lame. Elia Zordan punta un faro sull’evoluzione di un ragazzo normale che potrebbe essere nostro fratello, figlio, studente in una fase della propria vita spesso dimenticata e priva di supporto da parte di istituzioni e società, ma comunque delicata per la vita di un uomo.

Un libro adatto per chi ama la scrittura esistenziale capace di aprire gli orizzonti ed evocare emozioni in grado di risvegliare “il fanciullino” assopito dentro di noi.

Chi volesse leggere le recensioni passate le trova qui.

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