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ComWork, mostre geniali nel post pandemia

La startup milanese aiuta i musei a gestire in maniera più efficiente il loro patrimonio e a valorizzare online le loro opere. Tra i clienti la Pinacoteca di Brera, il Castello Sforzesco, i Musei Reali di Torino, il MuSe di Trento e il FAI.

Modernizzare e accompagnare nel nuovo millennio il settore museale, che salvo rare eccezioni sconta in Italia un ritardo epocale nell’adozione delle nuove tecnologie e della mentalità necessaria per trasformarsi in impresa culturale. E aiutare i musei a gestire in maniera più efficiente il loro straordinario patrimonio, per mettere a frutto una risorsa che dal punto di vista turistico e culturale ha un potenziale forse unico al mondo. 

Se si dovesse riassumere in poche righe le attività di coMwork, si potrebbero descrivere così. Ma questa startup milanese,  che opera nel campo culturale offrendo una serie di soluzioni per rispondere alle esigenze dettate dalla trasformazione digitale e dalle nuove richieste del pubblico, e che tra i propri clienti annovera la Pinacoteca di Brera, il Castello Sforzesco, i Musei Reali di Torino, il MuSe di Trento, il FAI – Fondo Ambiente Italiano e decine di altri luoghi della cultura in Italia, fa molto di più.

Nata nel 2016 come impresa sociale, l’azienda ha infatti creato una piattaforma cloud che integra tutti gli aspetti della gestione di un museo: dal collection management all’inventario, dalla scheda di catalogo ai prestiti, fino ai file multimediali. Un sistema che per un settore come quello museale ha rappresentato un vero e proprio salto generazionale, sia in termini di efficienza, sia di risparmi generati, sia di potenziali ricavi.

La gestione delle opere: una vera giungla

Fino a pochi anni fa la gestione del patrimonio di opere di un museo era infatti strutturata in modo tale che molto difficilmente le informazioni raccolte da un settore venivano condivise con gli altri. Ognuno aveva il proprio sistema “personale” di registrazione dei dati e, di fatto, la gestione delle opere rappresentava una sorta di puzzle di cui quasi nessuno era in grado di vedere il disegno complessivo.

Il risultato? Un sistema molto complesso e dispendioso da gestire, con rischi piuttosto alti di non sapere in tempo reale dove fosse un’opera, né quale fosse la sua storia in termini di prestiti o interventi di restauro. Non esattamente l’ideale per valorizzarla dal punto di vista economico e culturale. Ma anche un rischio in termini di conservazione.

Obiettivo: semplificare ciò che è difficile

“Noi, invece, abbiamo lavorato per semplificare ciò che è difficile”, spiega Stefania Vecchio, fondatrice di coMwork la cui esperienza ventennale nella progettazione e nella realizzazione di campagne di catalogazione, di lavoro con i musei e le istituzioni culturali ha consentito di mettere a fuoco tutti i problemi del comparto. “Basti pensare che le regole di catalogazione delle opere d’arte prevedono oltre 300 campi per ogni scheda e che esistono 11 diverse tipologie di scheda in base al bene che si sta classificando, peraltro con vocabolari di controllo per i termini utilizzati che devono rispondere a determinati standard nazionali e internazionali”. 

Prima questo sistema veniva gestito solo dai catalogatori, mentre i dati venivano replicati all’infinito da ogni persona che aveva bisogno di tenerne traccia. “Allo stesso modo, i cd e i file fotografici che i musei si sono ritrovati in mano con la digitalizzazione delle foto sono spesso stati gestiti in maniera disordinata, con il catalogo delle opere solo raramente reso disponibile sul sito internet dell’ente”, prosegue la fondatrice di coMwork..

Più efficienza e meno costi

Oggi, invece, grazie agli applicativi sviluppati da questa startup con sei collaboratori e sedi a Milano e Vimercate (in provincia di Monza e Brianza) dati e informazioni vengono inseriti un’unica volta al momento della catalogazione, e restano poi a disposizione di chiunque ne abbia bisogno direttamente sul cloud, in un archivio digitale che acquisisce in automatico ogni aggiornamento che riguarda l’intero patrimonio culturale di un museo, cioè migliaia di opere. Un cambiamento che riduce a zero (o quasi) il rischio di perdere di vista un quadro o una scultura, e che consente di trasformarli in risorsa.

Nessuna sorpresa, quindi, se sono già oltre 60 i luoghi della cultura che in Italia hanno adottato gli applicativi brianzoli. Né che le buone prassi sviluppate da questa startup stiano riscuotendo sempre più interesse.

Il sito internet come vetrina del museo

“Quando abbiamo cominciato, nel 2016, l’Istat aveva censito che solamente il 6% del patrimonio artistico nazionale era disponibile online”, spiega Stefania Vecchio. “Invece il sito internet di un museo è un po’ come  la vetrina di un negozio: serve per invogliare la gente ad andarci e rappresenta un primo approccio fondamentale con l’esperienza della visita”.


Libero Quotidiano, 30 ottobre 2021.

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