La vivacità nelle strade di Sarajevo, la riapertura della storica università di Mostar, il suono del richiamo alla preghiera accompagnato da fisarmoniche dalle melodie balcaniche che hanno sostituito le sirene di allarme antiaereo. Queste sono tutte vittorie di una tregua mascherata da pace che perdura da vent’anni.
La Bosnia ed Erzegovina, dopo anni di calma apparente e sporadici episodi di insofferenza tra le tre comunità serbe, croate e bosniache che coesistono con non poche difficoltà, si trovano ora ad affrontare la più profonda crisi istituzionale dagli accordi di Dayton.
La componente serba minaccia la scissione
Milorad Dodik, il membro serbo della presidenza tripartita, ha fatto qualche settimana fa un annuncio. L’entità gestita dai serbi, la Republika Srpska, abbandonerà le principali istituzioni per raggiungere la piena autonomia. Anche se significa violare gli accordi di pace del 1995.
Dodik, non è nuovo a questo tipo di minacce, che si riverberano nella regione già da 15 anni. La differenza con le passate dichiarazioni è che questa volta la percezione di paura per un nuovo conflitto armato si fa più concreta.
Una tensione riemersa dal divieto di negazionismo
La nuova escalation ha avuto inizio lo scorso luglio quando l’ormai ex Alto rappresentate delle Nazioni Unite per la BiH (Bosnia ed Erzegovina) – Valentin Inzko – ha vietato la negazione del genocidio nel paese balcanico per contrastare i tentativi dei serbi di Bosnia di misconoscere la portata del massacro di Srebrenica del 1995.
Così facendo, ho alzato ancora di più il rischio di scontro. Ha imposto modifiche nel codice penale del paese. Ha introdotto pene detentive fino a cinque anni per i negazionisti del genocidio e per qualsiasi glorificazione dei criminali di guerra.
Russia e Cina con i serbi, ma l’Onu non ci sta
La risposta dei serbo-bosniaci è stata molto dura. Hanno parlato di pregiudizio della comunità internazionale contro i serbi, provocando anche una spaccatura all’interno del consiglio di sicurezza ONU.
La risoluzione a firma Cinese e Russa, storici alleati dei serbi, con la quale si chiedeva la terminazione immediata del mandato internazionale – con scadenza naturale prevista per luglio 2022 – non è stata sostenuta dagli altri membri, portando ad un effetto domino con il non riconoscimento del nuovo alto rappresentante, il tedesco Christian Schmidt.
La secessione dei serbi non sembra essere solo un annuncio
Nonostante Dodik insiste di non voler puntare alla secessione, le azioni messe in campo – per ora solo annunci – non lasciano spazio ad interpretazioni.
L’autonomia militare, l’autonomia dei servizi di sicurezza e il totale boicottaggio delle istituzioni a conduzione tri-partitica, assieme alla creazione di un’agenzia per la riscossione dei tributi autonoma, vengono percepite come una reale minaccia dalla componente bosniaca della popolazione, quasi come un revival della gestione mono-etnica degli anni novanta che ha poi condotto alle tragedie umanitarie.
La responsabilità del conflitto è di tutti (politiche di aiuti Ue in testa)
Nonostante le responsabilità oggettive dell’ultima ora, non si possono imputare tutte le colpe solo alla parte serba; queste sono radicate nel tempo e da distribuire su vari attori.
L’implementazione delle politiche prima a guida statunitense e poi europee hanno creato le basi affinché le fratture inter-etniche si potessero riaprire, come successo in passato.
Una politica europea basata solo sugli aiuti – assistenza tecnica – considera più l’interesse del donatore che del beneficiario, quindi sul perdurare dell’emergenza. Questo provoca conflitto, non è una soluzione.
L’approccio omeopatico nei Balcani non funziona
I Balcani hanno sperimentato più volte una convivenza unitaria, ma è sempre naufragata sia per la debolezza delle istituzioni sia per l’accentramento del potere nelle mani di un Sovrano (che non rappresentava tutti) – con la Costituzione di San Vito.
Non ultimo la lunga parentesi socialista unitaria sotto Tito, che solo attraverso un sistema di bilanciamento delle forze e di potere diretto è riuscito a governare quella che dopo la sua morte sarebbe divenuta la polveriera d’Europa.
L’approccio “omeopatico” alla questione balcanica non condurrà ad una soluzione, ma renderà il “paziente” più indifeso verso virus che si riteneva non potessero più colpire.