Il romanzo di Federico Baccomo ci racconta con una chiave originale e coinvolgente una delle epoche più buie della nostra storia, quella del nazismo e della Shoah, ricordandoci come nemmeno in piena guerra l’uomo abbia mai rinunciato all’arte. Una cosa che fa riflettere in una fase storica come quella attuale, nella quale teatri e altre forme di intrattenimento di natura artistica sono rimasti in una bolla sospesa.
“Ricordare è oggi un gesto di educazione, una sfida personale alla dittatura del presente che ci fa tutti informati e distratti, condannati a oblio repentino” – Marco Paolini
Ci sono momenti storici che fanno parte del DNA del genere umano, che lo si voglia o meno, sebbene appaiano sempre più sfocati.
Ricordare la Shoah: per alcuni una necessità, per altri un’occasione per smarcare l’estetica di un “dovere” sui canali social in occasione di una singola data che, in fondo, arriva una volta all’anno.
Esistono tanti modi per ricordare. Per esempio ascoltare testimonianze, leggere, guardare film e documentari. Ma quest’anno, grazie a Federico Baccomo, abbiamo l’opportunità di seguire un filo conduttore inconsueto, un romanzo che ci traghetta dall’avvento del nazismo allo sterminio degli ebrei e alla fine del secondo conflitto mondiale grazie a un “caronte” un po’ insolito: un comico.
Erich Adelman è il protagonista di “Che cosa c’è da ridere” edito da Mondadori. Erich è un giovane berlinese, nato da una famiglia ebrea, cresciuto in un clima austero, continuamente bacchettato dal padre che di ridere proprio non è capace.
Cresciuto nella sua timidezza e insicurezza Erich scopre un’indole che gli era sconosciuta. Siamo nel 1928 quando, ancora quattordicenne, capita in uno dei locali notturni che costellano le notti di una Berlino nutrita di artisti.
Oltre a donne bellissime e ancheggianti, sul palco appaiono adulti diversi da quelli che è abituato a vedere, i quali per giunta dicono cose accattivanti e in grado di farlo ridere senza controllo anche al solo rivangare le loro battute. Affascinato da tale capacità, Erich decide di voler imparare quel mestiere e si avvale della figura, ormai in declino, ma ai suoi occhi autorevole, del Magnifico Walter, il comico dal quale ha sentito per la prima volta pronunciare l’essenza della comicità, apprendendo le fondamenta necessarie per costruire una battuta.
Erich nasce per la seconda volta, sotto il falso cognome di Barrymore, lastricando così il suo percorso di prime volte sulla scena. Ammutinando la propria timidezza, finalmente comincia a strappare un po’ di risate e a collezionare successi.
In un mondo che gli ha sempre chiuso porte in faccia, Erich ha trovato la chiave per aprire il portone: la comicità.
Proprio mentre i riflettori puntano finalmente su Erich, qualcosa si spegne però nella vita di chiunque abbia origini ebraiche in Germania: il nazismo ha acquisito potere e consenso. Al punto che è ormai legittimato nelle operazioni di violenza e distruzione nei confronti delle attività economiche degli ebrei e nelle pubbliche umiliazioni e violenze.
Il popolo ebraico è considerato il capro espiatorio di una situazione economica disastrosa causata dalla perdita del primo conflitto mondiale da parte della Germania, la cui economia è in ginocchio. Per molti la salvezza sta nell’abbandonare la Germania prima che sia troppo tardi e la meta di tanti è l’Olanda, per vicinanza logistica e culturale. Per Erich è, inoltre, un luogo dove poter sperare di continuare la propria professione di comico.
Da questo momento in poi Erich prende coscienza di che cosa voglia dire essere ebreo per l’epoca e, in un effetto domino, gli eventi lo portano al campo di transito di Westerbork, in Olanda.
La discesa negli inferi sembra per un attimo placarsi nel momento in cui Erich scopre che nello stesso campo è presente Max Ehrlich, noto attore di cabaret, il quale ha ricevuto il nulla osta dal comandante del campo, Albert Konrad Gemmeker, per creare una compagnia teatrale.
Non è che a Westerbork si stesse meglio che altrove e che Gemmeker fosse un nazista illuminato. La strategia era quella del dividi et impera: i componenti della compagnia godevano di privilegi, nessun lavoro pesante era loro affidato, erano nutriti di certo meglio degli altri e in cambio di cosa? Far ridere e intrattenere. Non c’è nulla di più strategico che creare delle divergenze tra le proprie vittime per poterle distrarre dal pensiero di una ribellione.
Erich diventa un componente della compagnia, ma il suo ingresso non è privo di riflessioni e sensi di colpa verso gli altri prigionieri. Che cosa c’è da ridere in una condizione del genere? Perché essere esentati da alcune crudeltà in cambio di battute?
“Siamo umani, e loro questa cosa non ce la possono togliere, solo noi possiamo rinunciarci, e io non voglio rinunciarci, perché so che, se posso salire ancora su un palco, se posso ancora far ridere, e se i nostri compagni qui dentro possono ancora assistere a uno spettacolo, se possono ancora ridere, significa che siamo ancora vivi noi e sono ancora vivi loro.”
Queste le parole che convincono Erich a buttarsi e dare una nuova luce all’esperienza più tragica della sua vita.
Far ridere il proprio nemico, far ridere chi ci ha tolto dignità e futuro. Far ridere si sa è una cosa seria, in questo caso può persino salvarti la vita.
Nel momento storico attuale, in cui teatri e altre forme di intrattenimento di natura artistica sono rimasti in una bolla sospesa per la pandemia da Covid-19, come ha raccontato Silvia Golfari su Notizie Geniali, leggere il romanzo di Federico Baccomo fa riflettere.
L’autore ci accoglie in questa storia con un registro colloquiale, con la voce di chi vuole farci conoscere i fatti. Una storia non soltanto sua, di una voce narrante che ci accompagna con tono leggero fino a svelarsi nelle pagine finali dell’opera.
Il lettore si affaccia alle tende di un sipario su un mondo quasi surreale, quello di Erich e del suo contesto familiare, si imbatte in personaggi insoliti e fortemente caratterizzati dal loro essere outsider. Ogni personaggio possiede delle peculiarità che si rivelano importanti per Erich, dei collanti che danno un senso alla loro presenza nella storia.
Leggere “Che cosa c’è da ridere” non permette solo di ricordare, ma consente al lettore di trovare anche una nuova sfaccettatura a quanto avvenuto per mano nazista. Per quanto la storia raccontata sia opera di fantasia, denota un attento lavoro di documentazione da parte dell’autore. Westerbork era effettivamente un campo di transito olandese dal quale i prigionieri venivano smistati per i campi di concentramento. Un nome tra tutte le destinazioni: Auschwitz.
All’interno del campo di Westerbork è realmente esistita una compagnia teatrale nata dalla volontà del comandante del campo che, effettivamente, si chiamava Gemmeker.
L’illusione di poter praticare il proprio lavoro non ha però salvato tanti artisti dal triste finale destinato a gran parte dei detenuti.
Leggere Federico Baccomo significa comunque accendere la speranza di poter tramandare fatti storici con una chiave che sia rispettosa, ma accattivante. E significa scoprire che si possono usare le parole, giocarci e rendere il messaggio più accessibile anche a chi guarda a quegli anni come a qualcosa di lontano, che ci siamo ormai alle spalle. Anche quando magari la chiave è quella del paradosso.
“Per me, personalmente, è un gran piacere andare ai comizi del Partito Nazista, e lo consiglio a tutti gli ebrei, andateci tutte le volte che potete. Voi penserete che sono pazzo, ma il fatto è che, ogni settimana, quando vado in sinagoga, non faccio altro che sentire ripetere che gli ebrei sono insultati, trattati male, perseguitati, e mi casca addosso una gran tristezza. Invece, quando sento i nazisti che dicono che comandiamo la finanza, controlliamo il mercato, siamo i padroni del mondo, finalmente mi sembra di tirare un po’ il respiro. Provateci anche voi”.