Gli oltre 75 anni di pace, per i quali dobbiamo essere riconoscenti all’Europa unita, quali effetti hanno avuto sulla selezione della classe dirigente?
Sentiamo molto spesso – forse troppo – celebrare che la Comunità Economica Europea, poi evolutasi nell’Unione Europea, ha assicurato oltre 75 anni di pace ai Paesi membri, tra cui l’Italia che ne è anche fondatore, dopo i disastri terribili delle due guerre mondiali.
Sarebbe facile far garbatamente notare come la pace interna sia quasi naturale, perché da sempre gli imperi combattono le guerre lontano dai loro confini. È stato il caso di Vietnam, Corea, Iraq e Afghanistan per gli Stati Uniti d’America e quindi anche di Serbia, Kosovo e forse presto Ucraina per la stessa Unione Europea, che è senza dubbio un soggetto politico di dimensioni “imperiali” in quanto somma di nazioni e “regni” diversi. Semmai il problema sono le rivolte e sommosse interne, che in questi anni non sono mancate sia da parte di cittadini sia di alcuni governi di Paesi membri, ma il discorso ci porterebbe lontano.
Meglio quindi concentrare l’attenzione e aguzzare l’ingegno per analizzare innanzi tutto se ciò sia effettivamente vero, e poi quali effetti questa asserita lunga stagione di pace abbia avuto sulla qualità degli attuali capi di stato e di governo europei, nonché sulla loro capacità di affrontare e risolvere i problemi senza precedenti che si sono presentati in questi ultimi drammatici anni.
Ma andiamo con ordine. È proprio vero che siamo in una effettiva “stagione di pace”?
Per poterlo affermare con certezza – o dover prendere atto del contrario – occorre innanzi tutto definire chiaramente cosa sia uno “stato di guerra” e confrontarlo con la situazione attuale.
Lo si può fare con due approcci diversi, egualmente validi. Partire dagli elementi oggettivi che costituiscono una condizione bellica – confrontando la nostra situazione odierna con quella delle guerre passate nei loro precedenti storici – oppure partire dagli elementi costitutivi di come oggi si svolga e definisca una guerra e verificare se questi siano concretamente in corso ai nostri giorni.
Purtroppo, già la prima verifica porta cattive notizie: se siamo in tempi di pace è una pace davvero strana.
In tempi di guerra – ce lo riferiscono gli anziani che l’hanno vissuta in prima persona e lo riportano i libri di testo e di storia – ci sono morti, tanti morti, povertà improvvise e altrettanto rapidi arricchimenti, limitazioni delle libertà personali senza precedenti con coprifuoco e passaporti interni, ospedali pieni o inagibili con malati respinti, prezzi dei beni necessari – cibo e riscaldamento in primis – in rapido aumento con difficoltà per ampi strati della popolazione a far fronte alle spese di tutti i giorni, stress in aumento vertiginoso per tutti, crollo della natalità, incertezza e insicurezza sul domani, economia in crisi con attività economiche che scompaiono da un giorno all’altro.
Sperando di non aver dimenticato nulla, appare tristemente evidente come la situazione che abbiamo dovuto vivere in questi due anni sia per molti versi indistinguibile da uno stato di guerra. Anzi, ci sono anche alcuni elementi peggiorativi rispetto alle guerre “standard”, a partire dai “lockdown” generalizzati. Mio padre ricorda che il coprifuoco vigeva solo nelle ore serali e notturne per evitare gli attacchi aereii.
Passiamo allora alla definizione di “stato di guerra”, cercando di capire se attualmente qualcuno – e nel caso chi – stia conducendo una azione bellica, e nei confronti di quali obiettivi.
Per poter definire in modo rigoroso cosa si intenda oggi per “guerra”, il riferimento obbligato è il testo che per primo, nel 1999, ha teorizzato i concetti di conflitto ibrido e di guerra asimmetrica, ovvero le modalità contemporanee di confronto: Guerra Senza Limiti[1]. In estrema sintesi c’è unanime condivisione in ambienti militari sul fatto che, non potendosi più di norma avere un confronto bellico tra le grandi potenze e i Paesi sviluppati con gli eserciti e le armi tradizionali . visto che il loro scontrarsi provocherebbe danni incalcolabili – oggi il conflitto si espande utilizzando ogni possibile strumento a disposizione. Si amplia così a dismisura l’arsenale potenziale dei mezzi che consentono di influire sull’equilibrio tra nazioni, consentendo la sopraffazione dell’avversario o, quanto meno, il suo impedimento in attività strategiche e l’attacco alle sue sfere di influenza.
Nulla è vietato nella guerra odierna: manipolazione tramite mezzi di comunicazione di massa, adozione di norme e restrizioni selettive, squilibri e pressioni economico-finanziarie, corruzione dei vertici politici, uso di armi batteriologiche, sovversione del diritto internazionale, uso indiscriminato di tecnologia abilitante e inibente, attacchi informatici, persino il terrorismo. Tutto è consentito.
Ebbene, anche qui il confronto con le condizioni attuali ci porta a identificare la situazione che abbiamo vissuto in questi mesi e anni come indubbiamente di tipo bellico.
Il martellamento incessante dei mass-media, le minacce e i ricatti da parte dei “mercati finanziari” ai governi eletti, le porte girevoli tra vertici politici e grandi imprese e gruppi economici che consentono di portare avanti agende parallele, la diffusione ancora da accertare nei modi e nelle motivazioni di un virus patogeno in tutto il pianeta, il sequestro di merci e medicinali in transito da paesi terzi per “interesse nazionale”. Abbiamo visto veramente di tutto. Non ultima la diffusione di tecnologie informatiche detenute da pochi gruppi mondiali per ampliare il telelavoro, implementare la didattica a distanza o, persino, per poter vedere i propri cari.
Insomma, forse non stiamo vivendo una vera pace. O una pace nel pieno senso della parola.
Almeno, non ora.
Accertato che la situazione che abbiamo dovuto affrontare nel recente passato e con la quale ci confrontiamo ogni giorno ha innumerevoli analogie con lo stato di guerra, possiamo passare al punto più interessante. Per quale motivo non si parla di situazione bellica – o quanto meno conflittuale – per quanto stiamo vivendo, né si fa nulla per porvi rimedio?
Al di là di alcune frasi retoriche come “guerra al terrorismo” o “guerra al virus” e nonostante l’adozione di misure straordinarie ed eccezionali di limitazione della libertà (lo stato di eccezione del quale scrive Agamben[2]) ci si rifiuta probabilmente di affrontare l’evidenza dei fatti. Vale la pena porsi apertamente la questione, perché gli effetti di una erronea valutazione da parte dei vertici politico istituzionali della reale situazione in cui versiamo possono essere devastanti. Alla Conferenza di Monaco del settembre 1938 Neville Chamberlain ed Édouard Daladier sbagliarono a valutare la pericolosità di Hitler e Mussolini. Tornarono in patria accolti da trionfatori, sinceramente convinti di aver risolto con successo e per sempre – grazie alla loro abile mediazione – il problema dell’aggressività del Reich evitando la
guerra. I danni incalcolabili della loro sottovalutazione del rischio furono presto evidenti con lo scoppio del secondo conflitto mondiale. Solo il coraggio di Winston Churchill consentì di capovolgere la situazione dopo anni di guerra e milioni di morti.
Questo è il vero problema.
Il processo di selezione dei governanti europei, in particolare nell’Unione Europea per i numerosi livelli intermedi di delega e mediazione, è il risultato di decenni di assenza di veri conflitti bellici. La scelta delle élites alle quali sono affidate le decisioni più importanti passa principalmente da mediazioni continue e compromessi: caratteristiche utili – anzi indispensabili – per emergere nelle democrazie parlamentari e mantenere il potere a colpi di “Große Koalition” e “compromessi storici” rimanendo così in sella per decenni.
La questione è se queste caratteristiche – sulla base delle quali sono stati di fatto selezionati i più alti decisori politici nel nostro continente – siano anche le più adeguate per comandare in nome del popolo quando ad un tratto ci si trova a dover combattere una guerra ed entrano in gioco dinamiche del tutto diverse. In una guerra non si vince grazie a mediazioni e compromessi, bensì decidendo e agendo rapidamente, possibilmente prendendo le decisioni giuste. Ma soprattutto con il coraggio di prendere decisioni.
Abbiamo probabilmente abbondanza di Chamberlain e Daladier nelle istituzioni europee e nei governi nazionali, ma se fossimo davvero in guerra – e probabilmente lo siamo – sarebbero loro le persone giuste per condurla e poterla vincere? O non sarebbe meglio avere un Churchill?
Ebbene, questo è il paradosso che ci troviamo a vivere oggi.
Il processo di selezione da “tempi di pace” ha prodotto in Europa una generazione di “leader” incapaci non solo di riconoscere una guerra – la guerra come la si conduce e combatte oggi – ma anche di gestirla e a maggior ragione di poterla vincere. Altrove le guerre non si sono interrotte. Stati Uniti, Federazione Russa, Cina, persino l’India hanno continuato ad avere situazioni conflittuali militari che hanno paradossalmente rafforzato la capacità di decidere dei loro vertici (selezionati in modo del tutto diverso), a prescindere dall’ordinamento politico e di governo.
Non è un caso che la teoria della “guerra senza limiti” ci sia offerta dalla Cina, ma che – pur avendo una moneta potenzialmente stampabile a piacere – le imprese europee siano impossibilitate dalle direttive e regolamenti comunitari a ricevere aiuti di stato governativi, supporto che è invece la norma al di fuori dell’Unione Europea. Interi settori industriali strategici sono così passati di mano sottraendoli al legittimo controllo degli Stati membri, con i punti decisionali ormai migrati fuori dal nostro continente, mentre problemi ancora più rilevanti si profilano all’orizzonte, a cominciare dalla normazione e controllo delle intelligenze artificiali.
Gli attuali leader politici – e anche quelli che li hanno appena preceduti – non sembrano in grado di affrontare le sfide epocali che ci attendono. La selezione darwiniana delle classi politiche dei “75 anni di pace” ha generato e mantenuto in vita dei plantigradi incapaci di distinguere un’emergenza e di saperla affrontare con decisione.
Il rischio è che tutti noi ne dovremo pagare le conseguenze.
Probabilmente lo stiamo già facendo.
[1] Qiao Liang e Wang Xiangsui, Guerra senza limiti – L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, LEG Libreria Editrice Goriziana, 2001
Unrestricted Warfare, by Qiao Liang and Wang Xiangsui Beijing: PLA Literature and Arts Publishing House, February 1999
In un’intervista allo “Zhongguo Qingnian Bao” (il quotidiano ufficiale della Lega della Gioventù Comunista Cinese, popolare quotidiano ufficiale e il primo portale mediatico del governo centrale nella Repubblica popolare cinese) uno degli autori, Qiao Liang, dichiarò in perfetto stile Chuck Palahniuk, quasi parafrasando le regole del “Fight Club” , che “the first rule of unrestricted warfare is that there are no rules, with nothing forbidden.” Nulla è vietato nella guerra senza limiti.
[2] Nelle sue parole: «Lo stato di eccezione è uno solo e, una volta dichiarato, non si prevede alcuna istanza che abbia il potere di verificare la realtà o la gravità delle condizioni che lo hanno determinato». 30 luglio 2020.
Per una trattazione più complete vedi: Giorgio Agamben, Stato di eccezione. Homo sacer, II, I, Bollati Borighieri, Torino 2003