Un blocco russo in piena disgregazione politica e territoriale potrebbe progressivamente distruggere catene di approvvigionamento e mercati strategici per i Paesi del Vecchio continente
L’analisi del sistema politico istituzionale russo si è sempre focalizzata – almeno nella sua visione occidentale – sull’assunto che in Russia ci sia un monolite istituzionalmente concentrato nella figura del suo presidente, quasi a rappresentare un unicum.
Un’indagine che tiene conto di altri fattori, da noi più volte descritta qui e in altri consessi, al contrario inquadra questo sistema spesso identificato come verticale del potere, come un ecosistema osmotico di élite che nel corso degli ultimi vent’anni hanno funzionalmente costruito e sorretto la dinamica del potere di Mosca. Tale architettura, a nostro avviso, ha resistito senza mostrare fratture sino alla vigilia del 24 Febbraio 2022, quando non solo spinte esogene al sistema, ma una scollatura endogena ad una delle élite – i siloviki – ha evidenziato una certa difficoltà di gestione unitaria di un Paese socio-politicamente complesso come la Russia.
Russia: i prossimi possibili scenari
La complessità nella gestione unitaria del potere in assenza di un pivot accentratore/catalizzatore dello stesso, ci offre la possibilità di valutare due scenari che risulterebbero nella loro fase ultima nella trasformazione della geografia politica della Russia di domani. Si tratta, naturalmente, di ipotesi che variano al mutare della variabile più importante: l’esito del conflitto in corso in Ucraina.
La prima tra queste è quella che nelle ultime settimane è stata provocatoriamente esposta anche da attori dell’establishment militare di Kiev e non solo, e che porterebbe a una completa balcanizzazione territoriale della Federazione Russa. Ritenuta da noi poco realistica nella sua versione integrale, questa incontrerebbe però una qualche praticabilità in caso di sconfitta militare o diplomatica russa. Il ritorno preponderante di spinte dalla forte inclinazione autonomistica o, in alcuni casi, anche separatistica è la condizione sine qua non affinché questo processo apra a una sorta di effetto domino.
I problemi interni per Mosca
Va evidenziato come quando si parla di questi movimenti non si parli solo di aree remote di confine, dove il fattore ideologico-religioso ha da sempre rappresentato l’unico collettore sociale, ma anche di regioni che storicamente hanno mal digerito la gestione imperiale centro-periferia, fulcro anch’essa della cosiddetta “power vertical” che contraddistingue il rapporto tra Mosca e i vari soggetti federali. Non andremo, quindi, qui a concentrarci su sole regioni quali la Cecenia, il Dagestan o la Bashkiria – per menzionarne alcune – ma faremo riferimento soprattutto ad aree altamente produttive e con una forte identità come la Repubblica del Tatarstan. Se per le prime la componente esogena dovrebbe giocare un ruolo di trigger, come la storia di due conflitti ci insegna, nel secondo la maturità del contesto socio-economico potrebbe fornire quella spinta propulsiva necessaria al processo.
Il rischio balcanizzazione del blocco russo
La seconda ipotesi riguarderebbe più una balcanizzazione del potere politico, per cui oltre alla rottura dell’asse Mosca-periferie, la classe politico-istituzionale russa potrebbe trovarsi a gestire un vuoto di potere anche all’interno del proprio centro.
Lo scenario che si originerebbe avrebbe caratteristiche molto simili a quelle della prima e dell’ultima fase dell’era Boris Eltsin, per quanto edulcorate da un insieme di variabili. Gruppi di potere economico – oligarchi – in aperto conflitto tra loro che, grazie al sostegno dell’élite di riferimento, provano a scardinare il primato della politica a vantaggio di interessi economici individuali. In questo contesto troverebbe un suo spazio l’attuale opposizione extra-sistemica che, seguendo un processo simile a quello che si è realizzato ad altri Paesi dello spazio Post-sovietico, andrebbe a istituzionalizzarsi.
Le diverse prospettive di Stati Uniti, Europa e Cina
La dimensione geopolitica esercita un ruolo focale in entrambi gli scenari sopra descritti. La prima ipotesi trova un certo consenso in una parte dell’establishment statunitense per due motivi principali. Per cominciare la frammentazione territoriale della Russia sbilancerebbe gli equilibri nella regione ad Est dello spazio post-sovietico generando o moltiplicando le crisi attualmente filtrate da Mosca e quindi chiedendo maggiore impegno da parte dell’unico grande attore regionale con le risorse e gli interessi a tenere stabile l’Asia Centrale, Pechino. In secondo luogo, la dissoluzione della Federazione Russa per come la conosciamo noi oggi provocherebbe un indebolimento della posizione cinese sia nel mercato dell’approvvigionamento delle risorse, sia nella creazione di un cordone Panasiatico.
Seguendo la stessa direttrice, molti sono gli interrogativi su quali sarebbero i benefici per l’Europa di un blocco russo in piena dissoluzione politica e territoriale. A nostro avviso il moltiplicarsi di crisi regionali porterà non solo a una lenta e costante distruzione delle catene di approvvigionamento che negli ultimi anni si sono create con alcune realtà centro-asiatiche, ma anche alla graduale implosione di quei mercati di sbocco di alcune industrie europee – tra cui quella italiana – che nel medio/lungo periodo potrebbero andare a sostituire quelle fette di mercato russo perse negli ultimi nove anni.
La tentazione per la distruzione di un impero potrebbe essere più forte di quella del primato della (geo)politica e in Europa potrebbe essere la prima a prevalere sul secondo.