I City Quitters sono solo ricchi snob o ingenui visionari? “Mai come di questi tempi si sente il bisogno di un ritorno al territorio, siamo di fronte ad un cambio epocale, ma bisogna saperlo guidare. Anche la città deve cambiare il suo modello, ridisegnando gli spazi urbani”. Intervista ad Aldo Bonomi*, studioso di dinamiche sociali ed antropologiche.
Vado a vivere in campagna. Un ritornello ricorrente, di questi tempi. Professor Aldo Bonomi, cos’è: una moda, una tendenza verso la green economy, una necessità legata alla pandemia?
“Diciamo un po’ di tutto questo. Ma io avevo teorizzato questo ritorno al territorio come speranza ben prima dell’arrivo del Covid. Ora siamo a un punto di svolta decisivo. Si riscoprono i piccoli borghi, la montagna, con uno spostamento dal centro alla periferia che ci sta cambiando la vita. Nel contempo anche le città cambieranno: si devono ridisegnare le reti, i trasporti, le piattaforme produttive”.
Come lo vede il fenomeno dei City Quitters, cioè di chi lascia la città per andare a vivere negli spazi aperti?
“Il trend non è nuovo, segue le dinamiche dei flussi ed era iniziato con la crisi ecologica, ma certo con la pandemia si è accentuato. Prima forse era più un fenomeno di élite, che coinvolgeva ricchi, artisti e creativi, e in parte lo è ancora. Adesso sono intere famiglie con bambini che abbandonano le metropoli per trovare una nuova dimensione, più genuina e economicamente sostenibile. Il fatto di poter lavorare a distanza aiuta, certo. Ma attenzione, non si deve confondere il vero ritorno al territorio con la voglia o la necessità di un buen retiro temporaneo legato magari alla paura dei contagi. Un conto è traslocare nelle seconde case per il weekend o per una sorta di vacanza, un altro è decidere di vivere stabilmente lontano dai grossi centri urbani”.
L’obiettivo non sembra quello di andare a fare i montanari o i contadini, ma quello di portare lo spirito della città “fuori”.
“L’intreccio è fondamentale. Non c’è smart city senza smart land. Al centro dell’attenzione non c’è più il “pieno” metropolitano, ma anche il “vuoto” del territorio circostante. Non sto solo parlando della comodità del telelavorare dalle case di campagna (perché è questo che ora si fa, non è vero smart working), ma dei vantaggi del buon vivere, della qualità della vita, della green economy. Visto che si parla di pandemia, non è un caso che si sia riscoperta l’importanza della medicina di prossimità, dei servizi sanitari sul territorio e non solo nei grandi ospedali. Il modello lombardo della sanità verticalizzata ha mostrato tutte le sue lacune”.
Lei parla spesso di flussi. Cosa intende?
“I flussi sono quei fenomeni che ci cambiano la vita in modo concreto. Ora c’è la pandemia da Coronavirus, ed è un flusso, ma in passato c’è stata per esempio la finanza. Il fallimento della Lehman Brothers poteva sembrare una cosa distante, ma quando ha iniziato a impattare sui mutui che la gente doveva pagare si è capito che non era così. Un altro flusso è stato l’avvento dei giganti dell’e-commerce: lo vediamo tutti i giorni, quando si fa un acquisto su Amazon o altre piattaforme, che il mercato è cambiato e non sempre in modo corretto. Anche la stessa migrazione è un flusso che ha cambiato la società, i rapporti tra le persone”.
E adesso? Siamo a un’altra svolta?
“Adesso, per tornare all’attualità più stringente, siamo appunto a una nuova metamorfosi. Il nodo è ancora una volta il modello di sviluppo. Non si mira più, parlando di crescita, a un modello verticale, alla piramide, ma si tende a immaginare un tempio greco con tante colonne. Altro che boschi verticali. Anche le città, non solo le campagne, devono cambiare”.
Come può avvenire questa metamorfosi?
“Città e campagna sono collegate, non c’è città florida senza territorio florido. Torneremo a un modello familiare: quello del Rinascimento, dei piccoli Comuni, delle città distretto, legate alle attività economiche. Si tratta di ridisegnare spazi urbani, e qui entrano in gioco architetti e urbanisti, a misura d’uomo. E risorse fondamentali, come acqua, verde, aria pulita, scuole sicure per i figli, saranno decisive per la scelta dell’abitazione”.
Ma così non si rischia di riempire il vuoto del territorio trasferendo solo un po’ più in là modelli o stili di vita sbagliati?
“Se tutto viene calato dall’alto il rischio c’è. Ma se gli strumenti della moderna economia vengono diffusi nel modo giusto, una speranza di riscatto esiste. La sfida è epocale. Si tratta di creare una rete di servizi, di modi di lavorare, di luoghi per la cultura e di welfare di comunità che non siano brutte copie dei modelli che hanno fallito. Bisogna anche riflettere su una tecnologia fatta solo di algoritmi ora nelle mani di pochi colossi digitali. In questi lunghi mesi, chiusi in casa, abbiamo capito cosa non va. Dobbiamo tenerne conto per la ripresa, sennò sarà stato tutto inutile”.
*Aldo Bonomi è nato a Sondrio, si è laureato in sociologia nel 1984. È fondatore dell’istituto di ricerca Consorzio A.A.S.TER. e studia da sempre le dinamiche sociali, antropologiche ed economiche dello sviluppo territoriale. È stato consulente della Presidenza del CNEL (durante il mandato di G. De Rita) e ha scritto per il Corriere della Sera (1997-2004). Dal 2005 cura la rubrica “Microcosmi” per Il Sole 24 ore e dirige la rivista Communitas. È autore di numerose pubblicazioni, tra cui Il capitalismo molecolare (1997), nonché i recenti Il Rancore – Alle radici del malessere del Nord (2009), Sotto la pelle dello Stato – Rancore, cura, operosità (2010), Elogio della depressione (2011, con lo psichiatra E. Borgna) e Il capitalismo in-finito. Indagine sui territori della crisi (2013).