martedì, Febbraio 4, 2025
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La trasformazione geniale del riso in risotto

Portato in Piemonte grazie al furto di un gesuita, solo da noi il riso si eleva a Sua Maestà il Risotto

È il secondo cereale più coltivato nel mondo. Quasi quattro miliardi di persone in tutto il pianeta utilizzano il riso nella propria dieta: i più voraci sono gli abitanti del Laos, che ogni anno ne consumano quasi 170 kg a testa; non da meno sono i cambogiani con 150 kg, seguiti a breve distanza dai vietnamiti e tailandesi. La sterminata marea umana cinese, un po’ a sorpresa, ne consuma “solo” un quintale a testa. Nel nostro paese, invece, navighiamo stabili intorno alla soglia dei 5 chili annui. 

La storia del riso parte da Oriente

L’antichissimo cereale con più di ottomila anni di vita, pur avendo una genesi incerta, senza dubbio trae origine dalle sterminate e piovose pianure dell’estremo oriente. Altrettanto fumosa è anche la comparsa del riso in Europa.

Non si sa se furono i Crociati a portarlo dalla Terra Santa, o se furono gli Arabi a farlo arrivare in Sicilia. O, ancora, se la diffusione in Italia fu opera di mercanti veneziani che, avendo stretti rapporti commerciali con l’Oriente, portarono alla conoscenza di questo cereale, considerato all’epoca come una spezia medicamentosa. 

I canali piemontesi e il furto di un gesuita

Di sicuro c’è che l’ascesa dell’importanza del riso è tutta rinascimentale, anche se la sua esplosione definitiva si ha più tardi nell’Ottocento. Due i fattori scatenanti: la costruzione di un fitto sistema irriguo ad opera del Cavour nella pianura piemontese e l’incredibile “furto” da parte di un gesuita di ritorno da una missione nelle Filippine di alcuni semi di varietà locali di riso, in modo che dall’unica qualità conosciuta in Italia si arrivò ben presto ad avere una cinquantina di varietà, più resistenti e più produttive.

Ai giorni nostri il cereale, cucinato a risotto, è ormai diventato un elemento distintivo della cucina made in Italy. All’estero è introvabile, mentre nella penisola non c’è un angolo dove non si prepari un risotto della tradizione con gli ingredienti tipici del locali. 

La versatilità del prodotto è sorprendente, può essere preparato con carne e pesce, con crostacei e verdure, con funghi, vini o tartufi. E, nonostante la sua roccaforte padana dove si declina in risotto alla milanese, brianzolo con la salsiccia, pavese con le rane, o nella panissa vercellese e paniscia novarese, lo si può ritrovare anche a Sud. Nella cucina tradizionale di altre realtà territoriali, come la tiella in Puglia, il pilau in Sardegna e il Sartù a Napoli.

Il miracolo evolutivo, da riso a risotto

L’elemento più sorprendente del riso è che tra il prodotto grezzo e il risultato finale intercorrono tutta una serie di passaggi, di lavorazioni, di colpi creativi veramente sorprendenti. 

Il risone, il riso greggio appena raccolto, dopo un ciclo vegetativo di quasi sei mesi si mostra rustico, poco attraente e scarsamente conservabile. Per farlo diventare riso, bianco, lucido e raffinato, occorre essiccarlo parzialmente, poi eliminare la pellicina esterna attraverso la sbramatura e raschiare i rivestimenti più interni (sbiancatura). Infine, un tocco di make up: si levigano i chicchi (lucidatura) si cospargono di talco (brillatura).

Tre chiavi per un risotto a regola d’arte

Ma quali sono le magie fondamentali che distinguono un vero risotto da un anonimo e inespressivo “riso cotto per assorbimento totale del liquido di cottura”? Tralasciando le modalità di esecuzione presenti su qualunque manuale di cucina, sono tre i punti chiave per realizzare un risotto che realmente può definirsi tale.

Innanzitutto la varietà di riso deve essere adatta all’uso. Le migliori sono il Carnaroli, l’Arborio e il Vialone Nano, anche se alcuni grandi chef non disdegnano affatto il Baldo e il Roma. Questi risi hanno il pregio, sconosciuto a tutti gli altri, di “tenere la cottura”. Rimangono compatti e consistenti e rilasciano la giusta quantità di amido, per dare un risultato finale cremoso, ma mai colloso. 

La tostatura a inizio cottura è il secondo punto fermo, essenziale nella riuscita del piatto. Il calore della fiamma vivace (non troppo, altrimenti il riso brucia) fa perdere al riso umidità e permette al condimento, al soffritto e ai suoi tipici profumi di essere assorbiti e di legarsi alla perfezione all’interno del chicco.

Infine, il rito della mantecatura. Mantecare significa mescolare dando consistenza cremosa. Bisogna amalgamare i chicchi di riso, legandoli intimamente ai sapori del condimento e agli altri ingredienti, ottenendo un insieme morbido e omogeneo, ma mai appiccicoso e colloso. 

Una mantecatura a regola d’arte, con burro e formaggio grana, o con altri formaggi saporiti oppure con qualche goccia di panna o di aceto, seguita da qualche minuto di riposo, eleva definitivamente il riso cotto a risotto. “Solo un po’ più che al dente nel piatto, scriveva Carlo Emilio Gadda nelle Meraviglie d’Italia, “con il chicco intriso e enfiato de’ succhi, ma chicco individuo, non appiccicato ai compagni, non ammollato in una melma, in una bagna che riuscirebbe spiacevole […] per non pervertire il profondo, il vitale, il nobile significato del risotto…”

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