La viticoltura nel territorio bresciano deve il proprio successo a personaggi illuminati e coraggiosi. Tra questi anche Teresio Schiavi le cui scelte hanno anticipato i tempi.
Accadde tutto così velocemente che poi non si ebbe più la forza di cambiare l’inerzia nella coltivazione della vite. La tradizione contadina ha prevalso nei secoli respingendo ogni forma di cambiamento.
Poi, però, madre natura ha sparigliato le carte imponendo a tutti di adattarsi ai cambiamenti da lei voluti. Solo alla fine l’uomo si è convinto a spendere l’adeguata intelligenza nella trasformazione dell’uva in vino.
Una storia che inizia 500 anni fa
Tra il Quattrocento e il Cinquecento, dove altrove Botticelli mischiava le tempere per la “Nascita di Venere”, Michelangelo quelle per la “Volta della Cappella Sistina”, e Leonardo si impegnava a far sorridere la “Gioconda”, nel fazzoletto di terra che ha contraddistinto la provincia di Brescia il Rinascimento ha coinciso con la dissoluzione prima morale, poi economica delle proprietà monastiche.
Per quello che qui interessa al racconto, durante gli ultimi due secoli del medioevo i monasteri da vertici economici, con la disponibilità delle terre, e di indirizzo agronomico, con la padronanza delle scienze, si sono dissolti distribuendo le terre, ma non il sapere, ai comuni e ai piccoli proprietari terrieri che gravitavano attorno a quel vertice.
Tale frammentazione della proprietà terriera è invero durata molto poco, poiché il benessere e le ricchezze della citta di Brescia hanno permesso ai più ricchi di coltivare una idea di “nobiltà”. Tanto che negli ultimi quarant’anni del 1400 oltre 45.570 ettari sono passati dalla proprietà contadina/comunale a quella delle vecchie o nuove nobiltà cittadine. L’ingresso nell’età moderna della provincia bresciana ha visto così visto i due terzi delle terre appartenere a soltanto 300 famiglie.
Una terra che per tre secoli era stata destinata i cereali
Agli inizi del 1500, e per tre secoli a seguire, la proprietà di quelle terre è stata suddivisa in poderi giuridicamente disciplinati dai rapporti di mezzadria il cui indirizzo economico è stato prevalentemente indirizzato allo sviluppo delle colture cerealicole.
La vite in questo contesto, un po’ perché senza mercato, un po’ perché destinata prevalentemente al fabbisogno familiare, non è mai stata fino in fondo capita.
La vite, una coltura egoista
Questo perché è una coltura egoista, autoreferenziale e solitaria. Non vuole nessuno accanto perché è avida di linfa e, una volta cresciuta, rappresenta un costo perché ha bisogno di pali che la sorreggano.
La vite ha poi un solo tempo di maturazione, né prima né dopo, e ciò valga per gli acini della stessa qualità, ma ancora di più per quelli di qualità diverse.
Una volta raccolta, l’uva per essere trasformata in vino ha poi bisogno di grandi investimenti in tecnologia, come l’uso dei coperchi nei tini di fermentazione, o in botti nuove per evitare scolmature o sgocciolamenti.
Per capire le ragioni che hanno impedito la piena comprensione della coltivazione della vite e della sua trasformazione in vino basti leggere queste poche parole che bene riassumono la mentalità contadina di allora nella provincia bresciana: “Superstiziosa venerazione che hanno i contadini pei principi e pei metodi di coltivare la terra veduti praticarsi dai loro maggiori; né deve parer maraviglia se essi sono restii a introdurre dei nuovi nell’allevare le viti nel fare vini“.
L’uva selvaggia del territorio bresciano
E così, vista l’assenza in qualche modo inevitabile di uno sviluppo agronomico/viticultoreo un tempo garantito dalla scienza dei monasteri, l’ostacolo maggiore nella coltivazione dell’uva e nella sua trasformazione in vino è stata proprio l’inerzia della tradizione contadina che ha addormentato qualsiasi forma di sviluppo dal 1500 fino agli inizi del 1800.
La coltivazione dell’uva nei filari in questo periodo è stata portata avanti senza criterio. In nessuna vigna coltivata si trovava uva della medesima qualità. Si poteva passare tra i filari e trovare in modo promiscuo moscatelli bianchi, vernacce, schiave, oppure groppello.
La vendemmia selvaggia del 1800
Tutte le uve venivano raccolte simultaneamente, acerbe o stramature, per poi essere pigiate simultaneamente e tutte mescolate nella produzione del vino.
La pigiatura veniva poi fatta schiacciando gli acini coi piedi ma quei piedi erano l’esatto specchio delle condizioni delle cantine, perlopiù sporche, con le botti spesso scolme, gocciolanti e raramente pulite.
Insomma, il vino così prodotto era soggetto a derivazioni acetiche, ed è stata questa la ragione per la quale quel vino è stato prevalentemente destinato al consumo familiare o, se venduto localmente, doveva essere consumato entro l’anno.
1850: la rivoluzione dell’oidio
Finalmente, ma solo con l’anno 1850, il torpore dell’inerzia della tradizione contadina viene bruscamente scosso perché, se i cambiamenti non vengono intrapresi spontaneamente dall’uomo, beh, allora ci pensa madre natura a cambiare le cose quasi irrimediabilmente.
In Valsabbia, valle orientale compresa tra Brescia e l’inizio del lago di Garda, durante il 1850 è arrivato l’oidio, fungo parassita che di lì a poco avrà sterminato la coltivazione della vite.
Per avere un’idea, dal suo avvento per i successivi 13 anni le cantine bresciane sono state chiuse e la zona, che nel 1852 aveva prodotto 32.975 hl di vino, nel 1884 ha prodotto solo 8.325 hl.
Nel periodo di lotta serrata all’oidio, nei due lustri successivi al 1850, sono accadute molte più cose di quante non ne sono successe nei tre secoli precedenti.
I primi bonus (che oggi si chiamerebbero vendemmia verde)
La crisi che ha colpito il lato dell’offerta del vino ha visto il coinvolgimento anche dello Stato, il quale, con la “Sovrana risoluzione del 28 dicembre 1855”, ha erogato in modo diretto una prima retribuzione ai proprietari terrieri che avessero perso un terzo della rendita totale dei terreni vitati.
L’odierna misura a sostegno dell’agricoltura denominata “vendemmia verde” e contenuta nel Regolamento (Ue) n. 1308/2013 può certo dirsi figlia di quel provvedimento.
Inoltre, se il lato della crisi del vino ha certamente colpito il lato dell’offerta del prodotto, dal lato della domanda questa non ha visto una flessione perché è rimasta invariata, ed è stata soddisfatta importando il vino da fuori il contesto locale.
Le prime frodi alimentari e le prime commissioni di controllo
Ecco allora che il vino importato fuori dal contesto locale, vino mai bevuto né conosciuto prima dal consumatore, e quindi un vino nella memoria irriconoscibile, ha reso possibili le prime frodi alimentari per sofisticazione del prodotto.
E così, sulla falsa riga di un fenomeno già noto in Inghilterra, è stata adottata una soluzione comune che è stata quella di istituire una commissione sanitaria addetta al controllo del vino alla mescita per accertarne la genuinità.
Le prime forme di sofisticazione locali hanno così messo in definitiva in luce il macro problema del mercato del vino negli anni avvenire, che è stato quello di definire a livello normativo che cos’è il vino, per poterlo distinguere, individuare e tutelare contro le frodi alimentari.
Dal lato più eminentemente pratico, invece, l’immediata conseguenza degli accadimenti imposti con la diffusione dell’oidio ha fatto sì che le zone meno adatte alla coltivazione della vite, quelle prevalentemente pianeggianti, venissero abbandonate, a tutto vantaggio dello sviluppo delle coltivazioni nelle zone collinari. E questo ha dato l’inizio a quello che è oggi il paesaggio vitivinicolo della provincia bresciana.
La fine della peste dell’oidio
Sul finire del 1858 la solforatura delle viti, polvere di zolfo sparsa alla bisogna, ha infine permesso di concludere la crisi causata dall’oidio.
I produttori che sono sopravvissuti hanno trovato un mercato con meno concorrenza, con una domanda di vino costante, il cui prezzo finale è stato formato su scarsa offerta, a tutto vantaggio per i produttori che se la sono cavata.
In arrivo dalla Francia la Fillossera
Neppure il tempo di debellare l’oidio che poco più in là, in Provenza, ad Arles, già dal 1863, si è iniziato a osservare uno strano fenomeno. Le foglie delle viti tutt’a un tratto hanno iniziato ad avvizzire, per poi cadere. Le nuove radici nate, prive di vigore, non permettevano la maturazione dei frutti che rimanevano acerbi. Al terzo anno la vite moriva avvizzita senza rimedio.
Lo stesso fenomeno in Italia si è iniziato a osservarlo nel 1879. La provincia di Brescia è stata colpita dalla Devastatrice nel 1896.
L’afide Phylloxera vastatrix, comunemente chiamata Fillossera, che ha avuto origine, ironia della sorte, si dice dalle uve americane probabilmente utilizzate negli esperimenti fatti per debellare lo oidio, è stata in grado, per devastazione, di superare, e di molto, i danni inflitti alla vite dall’oidio: la Fillossera alla fine del suo cammino avrà sterminato quasi tutte le viti del vecchio continente.
Una intuizione geniale: innestare uva europea
Nel 1869 il signor Laliman di Bordeaux, durante la partecipazione al congresso di Beaune, ha però avuto la felice intuizione di osservare alcune viti americane e ha potuto così constatare che alcune di queste fossero immuni alla Filossera. Ipotizzò quindi che il problema si sarebbe potuto affrontare innestando l’uva europea sulle radici dell’uva americana.
Quella intuizione è diventata la definitiva soluzione per sconfiggere l’afide e ora la maggior parte dei vigneti nel vecchio continente sono a piede assegnato (innesto della pianta europea su radici di uva americana) e non più a piede franco (piante con radici proprie non ibridizzate con quelle americane)
Per quello che più qui interessa, quel periodo di lotta alla Fillossera ha portato a due cambiamenti decisivi nella coltivazione della vite e nella produzione del vino nella provincia bresciana.
Una rivoluzione per il territorio bresciano
Con la necessità di innestare le piante di uva europea sulle radici di uva americana, tutte le viti della provincia sono state rinnovate e ciò ha permesso uno sviluppo più moderno nella coltivazione e nella selezione dell’uva tra i filari.
Inoltre, l’arrivo della Fillossera ha imposto ai produttori di vino di fare squadra.
Questo decisivo cambio di mentalità ha visto la nascita del primo consorzio antifilosserico in provincia nel marzo del 1887.
Nascono le cantine sociali
Ma ancora di più, il fare squadra ha coinciso con la costituzione delle cantine sociali. Nella provincia di Brescia la prima cantina sociale costituita è quella di Tremosine nel 1898.
L’animo che ha spinto alla costituzione delle cantine sociali è ciò che ha permesso alla produzione di vino di fare quel significativo salto di qualità allora mancante, poiché lo scopo d’elezione delle cantine comuni era quello “consigliare la coltivazione dei più convenienti vitigni limitandone il numero e rendendo più omogeneo il prodotto”.
L’attività di indirizzo delle cantine sociali ha finalmente colmato l’assoluta assenza di un indirizzo di studio e ricerca accessibile nelle produzioni vitivinicole.
Con la ricerca dell’omogeneità del prodotto, e quindi con la sua riconoscibilità all’esterno, il vino ha così potuto sviluppare un proprio segmento di mercato, poiché il consumatore è stato messo nelle condizioni di riconoscere quel vino, senza che questo venisse confuso con la moltitudine di altri vini messi sul mercato.
Ed ecco allora che quel cambio di mentalità ha permesso di non aspettare più i cambiamenti imposti da madre natura. Così, attorno agli anni 60 del 1900, è diventato tangibile l’investimento dell’uomo in intelligenza che ha definitivamente indirizzato lo sviluppo tecnologico delle produzioni vitivinicole.
Dal 1960 i vitigni bresciani si strutturano: nasce il metodo Franciacorta
Dalla metà del 1900 nella provincia bresciana è stato possibile osservare il riordino dei filari destinati questa volta ad accogliere un’unica qualità di uva la cui coltura è stata decisa a tavolino anche grazie allo studio delle caratteristiche chimico/fisiche del terreno.
Sempre in quel periodo la tecnologia ha sposato la scienza ed è stato possibile comprendere il procedimento di fermentazione malolattica del vino, il cui risultato ultimo è quello di dare al vino maggiore “morbidezza”.
Infine, a segnare definitivamente la strada che ha intrapreso una parte della provincia bresciana, oggi individuata nella DOCG Franciacorta, è stata la felice illuminazione di Franco Ziliani, il quale nel 1960, assieme al conte Guido Berlucchi, ha definitivamente cambiato le sorti della viticoltura di quella parte del territorio portandola a scoprire la coltivazione delle uve atte a dare vita, assieme alle tecniche di produzione necessarie, alle tanto distinguibili bollicine nate in terra di Franciacorta.
La coraggiosa storia della cantina Mirabella
Ecco, all’interno di tali accadimenti vale la pena raccontare dell’azienda agricola Mirabella perché è una realtà capace di fare esatta sintesi dei tempi passati mescolandoli coi giorni presenti.
Colla medesima caparbietà contadina, amando il fondatore Teresio Schiavi il Pinot bianco, la cantina ha scelto di proporre – prima e a lungo unica in questo territorio – anche uno spumante metodo classico prodotto esclusivamente con questo uvaggio. Un vino che, a differenza del resto della produzione, non esce con denominazione DOCG Franciacorta, ma questo a causa di un imbarazzante limite legislativo nel disciplinare di produzione che non prevede l’utilizzo del Pinot bianco in purezza. Teresio Schiavi l’ha voluto come fosse il figlio più amato, disinteressandosi completamente dell’immediato distinguo del vino dato dalla denominazione di provenienza.
Franciacorta e Pinot bianco
La mescolanza tra i tempi passati e i tempi moderni è poi capace di utilizzare con sapienza le più importanti innovazioni tecnologiche e il vino prodotto viene volontariamente sottoposto a fermentazione malolattica proprio per regalare al palato una avvolgente carezza dopo ogni assaggio.
Il lavoro in cantina, poi, è un continuo e costante lavoro di sintesi tra le diverse personalità, quelle del fondatore e dei suoi figli, tutti dotati di altissime professionalità. Un lavoro in cui la ricerca del compromesso tra opinioni diverse è sempre indirizzata a esaltare l’idea di ciascuno senza però sacrificare quella degli altri.
Questa continua ricerca di un equilibrio tra le diverse anime familiari è ciò che permette di comprendere perché esiste una filosofia di fondo nell’intera linea di prodotti offerta dalla cantina. È davvero agevole cogliere la stessa mano, la stessa idea in un crescendo di complessità tra un vino e l’altro, tra quello più giovane a quello più evoluto.
La filosofia così sviluppata dall’incontro delle idee della famiglia ha indelebilmente impresso una coerenza stilistica nelle produzioni di cantina ed è ciò che rende oggi assolutamente distinguibili e riconoscibili tutte bollicine prodotte dall’azienda agricola Mirabella.