Piccolo campionario di storie straordinarie. Cosa succede quando si decide di seguire il proprio cuore anziché la ragione e di sposare una linea estrema in vigna o in cantina. Spoiler: impossibile non innamorarsi di loro.
Perché i vini dei folli? Che la storia del vino sia caratterizzata dalla presenza di figure rivoluzionarie, capaci di cogliere fenomeni con decenni di anticipo o di tracciare rotte considerate impossibili, non è certo una novità. Basti pensare a personaggi del calibro di Angelo Gaja, il re del Barbaresco e il primo a credere, negli anni Sessanta, che i vini italiani potessero competere con Bordeaux, Champagne e Borgogna in termini di qualità e di prezzo. O all’enologo Giacomo Tachis, padre del Tignanello e del Sassicaia e figura fondamentale per il rinascimento dell’enologia italiana.
Ma in periodo di pandemia globale e di crisi economica senza precedenti, il confine tra una scelta controcorrente e un lampo di follia appare decisamente più sottile. Tanto più quando la decisione di seguire il proprio cuore anziché la ragione porta a sposare una linea estrema in vigna o in cantina.
Eppure, la casistica dei personaggi che potrebbero animare un nuovo filone dedicato (con rispetto) al “Vino dei folli” è decisamente ampia. E l’elenco, che non ha certo l’ambizione di essere esaustivo, potrebbe partire da Codevilla, un piccolo comune con poco meno di mille abitanti tra le colline dell’Oltrepò Pavese.
Il metodo ancestrale nelle colline dell’Oltrepò
È qui che nel 2013 Stefano Banfi, allora trentottenne, ha deciso di trasferirsi per scoprire la vita del vignaiolo dopo aver lasciato un posto fisso (ben retribuito) da infermiere in Svizzera, più precisamente in Canton Ticino. Una scelta decisamente controcorrente, tanto più che “non avevo particolari legami con il territorio nel quale mi sono trasferito”, ammette Banfi, dal cui racconto traspare però la consapevolezza che quel salto nel vuoto è stato la scelta giusta.
Oggi quella stessa filosofia che l’ha portato a scegliere una vita immersa nella natura la si ritrova in vigna, dove sta sperimentando l’impiego di pecorelle e capre nane per tenere pulito il vigneto senza impiego di sostanze chimiche, e nei vini della sua azienda vitivinicola, la Rocchetta di Mondondone. “Da un paio d’anni abbiamo in catalogo un vino bianco che abbiamo ribattezzato Imperfetto e che è prodotto con metodo ancestrale”, spiega, “a base di uve miste cortese, riesling e moscato”. Si tratta di un prodotto fermentato spontaneamente in bottiglia, non filtrato, che ha già trovato parecchi estimatori.
Produrre grandi spumanti nella terra del Prosecco
Caprette, galline e cavalli sono invece i compagni di avventura scelti da Daniela Nichele dell’azienda Terre di San Rocco. Pur trovandosi a Roncade, in provincia di Treviso e nel cuore del Prosecco, il vino italiano più venduto al mondo, la sua scelta è stata quella di rinunciare a vendite (e denaro) assicurate per scommettere sul metodo classico.
È nato così uno spumante che forse nemmeno in Champagne avrebbero osato immaginare, come il Maria Vittoria Brut Nature dedicato alla figlia, un 100% Pinot Grigio con lungo affinamento sui lieviti. Tra i filari dei vigneti trovano spazio anche Pinot Bianco, Chardonnay, Merlot, Cabernet per vini bianchi e rossi, tutti di alto livello, ma nemmeno una vite di Glera, l’uva principe del Prosecco.
In equilibrio sopra la follia tra Etna e Cefalù
Ma estrema, sia per ragioni di latitudine sia per fattori storici, è anche la scelta di Salvatore Cicco e di Tenuta San Giaime, a Gangi (Palermo) nel cuore delle Madonie siciliane, di puntare sul Pinot Nero, oltre che sugli autoctoni Grillo e Nerello Mascalese. I vigneti, tra gli 800 e i mille metri di quota, guardano da un lato verso Cefalù e dall’altro verso l’Etna innevato. Spesso sono animati da simpatiche oche, che dovrebbero concimare il terreno, ma invece attentano alle uve di cui sono ghiotte.
Il risultato è un Pinot Nero straordinario, con un’eleganza e un corpo degni della quotatissima Borgogna. Unico difetto, quello di essere prodotto in un numero limitato di bottiglie (non più di 2 mila al momento).
Addio all’ultimo tabù: ecco i vini veneti in lattina
Ma, in tema di follie, meritano una citazione anche i vini in lattina prodotti dalla neonata cantina veronese Zai. Una cantina urbana che ha voluto unire un packaging accattivante e innovativo con vini bio e vegan.
Una piccola grande rivoluzione che a qualcuno ha già fatto storcere il naso, ma che promette di conquistare i consumatori. Non solo in Italia, ma anche all’estero.
Perché, come scriveva Johann Wolfgang von Goethe, l’audacia ha in sé genio, potere e magia.
Libero, 26 aprile 2021 (ultima modifica 28 aprile)
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