La storia di un vitigno che cresce tra Novi Ligure e Finale. Poco conosciuto, ma capace di raccontare la vita e la gente di una lingua di terra della Riviera di Ponente, benedetta da Sant’Ampelio.
La Liguria ha un “mare senza pesci”. E questo non è solo un luogo comune perché nel rapporto fatto dal prefetto napoleonico del dipartimento di Montenotte (1805-1815), uno dei tre dipartimenti in cui venne divisa l’ex Repubblica di Genova, quello per intenderci che comprendeva i territori di Savona, Porto Maurizio e Basso Piemonte, è stato proprio riferito che le coste della Liguria hanno fama di essere prive di pesci. Eppure, i proventi della pesca hanno rappresentato un’importante ricchezza per il paese.
Nell’apparente contraddizione di un mare senza pesci capace di generare ricchezza per il paese è tutta spiegata l’anima delle popolazioni rivierasche, queste dotate di lucida follia, hanno dovuto fare la differenza per poter continuare a vivere quei posti.
La pesca nelle due riviere liguri, due mondi diversi di intendere la vita
Perché nella Riviera di Levante ( La Spezia – Genova) e nella Riviera di Ponente (Genova – Menton) la pesca è stata espressione di due modi completamente diversi di intendere la vita.
La pesca di Levante è sempre stata una pesca prevalentemente di altura che oltrepassava il Mar Ligure per portare i pescherecci verso la Toscana, il Lazio, la Campania, con licenza di fare scorribande in tutto il Mediterraneo, verso la Francia e la Spagna.
Quel modo di pescare ha segnato in modo profondo il distinguo di chi va per mare e di chi rimane a terra. La coltivazione dei campi, infatti, ha spesso offerto solo stenti, fame e miseria perché, per quanto si volessero bene indirizzare gli sforzi, la terra accarezzata da un tempo inclemente poteva avere un solo raccolto: il nulla.
La pesca d’altura
La pesca d’altura, invece, è sempre stata retta da un unico principio: il mare è pieno di pesci. Spetta solo al capitano del peschereccio trovarli.
E lì l’ambizione dell’uomo, la necessità, oppure la disperazione, si sono misurati con ciò che la terra piatta e brulla non ha mai offerto loro: il pericolo di non tornare più a casa.
E così è spesso accaduto che il mare non restituisse né barche né pescatori alle proprie case e alle proprie famiglie.
La pesca di Ponente
La pesca di Ponente, invece, è sempre stata una pesca prossima al litorale, spesso fatta con la sciàbica, vale a dire una rete a strascico lunga un centinaio di metri, posta in mare da una piccola imbarcazione e manovrata da terra da donne, ragazzi e anziani, che la richiamavano a sé facendo incetta di tutto quanto potesse offrire quello specchio di mare imbrigliato in poche centinaia di metri di rete.
Quel modo di pescare ha rappresentato un modo di vivere la comunità del tutto trasversale perché uomini, donne, vecchi e bambini venivano impiegati tutti in quell’attività così faticosa. Perché la pesca in buona stagione non ha avuto né giorni né notti, solo poche ore di sonno al centro della giornata per poi ripartire con le reti, oppure non ha neppure permesso di chiudere occhio durante il passaggio del pesce.
Un mare povero di pesci
Quel tipo di pesca, però, a differenza della pesca di altura, ha dovuto misurarsi con le risorse limitate della tecnica, vale a dire quelle poche centinaia di metri di reti capaci di imbrigliare il mare proprio davanti casa. Ed ecco allora che è spesso capitato che un mare pieno di pesci diventasse un mare povero nella pesca litoranea.
Perciò, e non a caso, quelle popolazioni ponentine così legate alla contiguità tra mare e terra nella letteratura marittima francese sono descritte come sociéetés littorales e per loro è stata coniata la categoria pluriactivitè.
Mare e terra, un’unica risorsa
Perché, per poter continuare a vivere in quei luoghi, mare e terra non sono state risorse diverse, ma sono state un’unica risorsa, che ha permesso ai pescatori durante l’anno di trasformarsi in agricoltori, o anche in vignaioli, per far fronte alle limitate risorse offerte dal mare.
A tal proposito, ma questo sì è un puro caso, uno dei primi santi citati nella Riviera di Ponente è Sant’Ampelio (Bordighera-410 d.c.), il cui nome deriva proprio da quello della vigna (àmpelos = vigna).
Il panorama viticolo
E in quella lingua di terra di Ponente benedetta dal Santo, il panorama viticolo si distingue ancora oggi dagli altri paesaggi perché i vigneti sono situati per la maggior parte in bassa-media collina, con terrazzamenti costruiti apposta per vincere il pendio scosceso e permettere la coltivazione e la raccolta delle uve.
La DOC maggiormente nota, e in generale si pensa quella più rappresentativa dei luoghi, è quella di Riviera Ligure di Ponente DOC con i suoi vini: Pigato, Rossese, Granaccia.
Tuttavia, anche un’altra uva e un altro vino si prestano a descrivere e riassumere, forse meglio, quella che sono state le vicissitudini di questi luoghi.
L’uva Lumassina, o Buzzetto, o Mataossu
L’uva Lumassina viene prevalentemente coltivata e raccolta nella provincia di Savona, tra l’entroterra di Novi e Finale Ligure. La denominazione di tale zona è una IGT che porta il nome di Colline Savonesi.
Il nome Lumassina ha la propria origine nel dialetto ligure, perché Lumassina significa lumachina, e per tradizione questo vino veniva bene accompagnato con le lumachine diffusamente presenti in quelle zone.
Quest’uva, però, ha anche due sinonimi alquanto singolari, Buzzetto e Mataossu.
Un vino “buzz”, asprigno come le persone che abitano quei luoghi
L’uva Buzzetto, e il vino che ne deriva, sono caratteristiche della zona di Quiliano, comune appena sopra Savona e Vado ligure, e l’uva porta quel nome perché si pensa che sia la derivazione dell’aggettivo “buzz”, vale a dire acerbo, “asprigno”, che è un po’ la tipica caratteristica di quel vino prodotto in quella zona e che ricorda molto da vicino il carattere delle popolazioni che abitano in quei luoghi.
L’uva Mataossu
L’uva Mataossu, raccolta solo a Varigotti, che prima è stato un comune autonomo e ora invece è un rione di Finale Ligure, e il vino che ne deriva, invece, sono l’esatta sintesi di quella vita litoranea ponentina fatta di commistioni tra mare e terra.
I vigneti di Mataossu, così come sono quelli dell’azienda agricola di Punta Crena della Famiglia Ruffino, hanno rubato letteralmente della terra al mare per poter essere coltivati. I terreni scoscesi sono stati addomesticati grazie a dei terrazzamenti dove solo l’uomo, e non le macchine, possono arrivare.
La vendemmia è fatta ancora a mano, grappolo per grappolo, acino per acino; il tutto poi caricato in delle gerle che solo la fatica degli uomini, e non mezzi meccanici, consente di trasportare da un posto all’altro per poi trasformarle in vino.
Il Reiné Mataossu, Colline Savonesi IGT
Quello che infine viene prodotto, il Reiné Mataossu – Colline Savonesi IGT, che abbiamo degustato nella versione offerta dall’annata 2019, è pura sorpresa, è meraviglia. È inaspettato il colore, è inaspettata l’ampiezza in bocca; ti accorgi che è un qualcosa di mai bevuto né assaggiato prima.
Capisci che quell’uva deve avere incontrato per forza la mano sapiente dell’uomo. Perché quel vino resta sospeso, come se fosse in perfetto equilibrio nelle sue componenti essenziali, sebbene quell’uva sia stata prima scossa dal vento del mare, tramortita dal sole, poi assetata dal caldo e infine strizzata per farne vino.
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