Alle spalle del Campanile di San Marco si è fatta la storia del commercio, di un territorio, di un popolo che umilmente continua solo a scacciare la miseria.
La miseria non ha gambe. Quando arriva lì rimane. Si può solo sperare di avere la forza per mandarla via. E a Roncade, piccolo borgo a 13 km da Treviso, lo sanno bene.
Nel corso dei secoli il paese è stato un puntino con attorno terra, solo e soltanto terra. Lì non c’era ricchezza per vivere. I campi potevano offrire unicamente fatica e sudore. Quello è un territorio molto vicino al Polesine, quest’ultimo famoso per le vicissitudini del grano, dei mulini e della famiglia Scacerni se n’è scritto anche nella saga capolavoro de “Il Mulino del Po“.
Roncade, un borgo nato non a caso
Meno si conosce, invece, della coltivazione della vite, del vino, e delle traversie contadine della famiglia Nichele di cui ora parleremo. Il borgo della famiglia, Roncade, un po’ come tutti i borghi non è nato lì per caso.
Il paese, infatti, gode del passaggio del fiume Musestre, affluente del fiume Sile, entrambi di origine risorgiva e non torrentizia, che hanno permesso nel corso dei secoli la navigazione e il traporto delle merci da un posto ad un altro, per provare a scacciare la certa povertà del vivere di sola terra.
Il fiume Sile, poi, non termina il suo corso in un posto qualsiasi: sfocia proprio in mezzo alla Laguna Veneta, ai piedi di Venezia, che un tempo è stata la capitale assetata della Repubblica Serenissima.
Così, proprio nella più bella e più importante piazza del mercato, che si inginocchia ai piedi del Campanile di San Marco, venivano recitate le giaculatorie di chi voleva fare buoni affari con il commercio del vino. Perché quel tipo di commercio, non era certo semplice. Manteneva un’alea d’imponderabile rischio che veniva affrontato o con la fede o con la superstizione.
L’ombra (de vin) alle spalle del Campanile
Infatti, per alcuni mercanti il commercio, una volta arrivati nella Piazza, era una cosa semplice; dovevano solamente rimanere fermi ad attendere che le borse più ricche e capienti della città coprissero d’oro i loro affari, magari acquistando spezie o tessuti.
La vita dei mercanti di vino, invece, era tutt’altro che comoda, perché oltre alle incertezze del trasporto, verosimilmente, erano anche costretti a trovare un rifugio dal sole della piazza per sfuggire dalla canicola.
Infatti, si dice che i venditori fossero costretti a inseguire ad ogni ora l’ombra del Campanile per cercare di evitare che il calore, assieme al pessimo livello di igiene delle botti, attivassero quei processi di derivazione capaci di trasformare il vino in aceto. Altro che miracolo!
Così, a chiunque cercasse allora del vino, bastava volgere lo sguardo al Campanile per cercare la sua ombra distesa e riflessa sulla piazza: lì avrebbe trovato ciò che stava cercando.
Quell’idea di ombra è rimasta viva nella tradizione, tant’è che ancora oggi, non a caso, la leggenda narra di come il nome dato al bicchiere di vino in Veneto “ombra de vin” raccolga ancora quell’usanza delle genti che, per cercare un sorso di vino, dovevano trovare dell’ombra con la quale dissetarsi.
Un assaggio di carne di vitello che cambia la vita
Tutte queste vicissitudini appartengono alla storia della famiglia Nichele e a Renato, che è venuto al mondo subito dopo la seconda guerra mondiale. Il destino ha voluto fargli conoscere la fame e la miseria di quel periodo.
E ancora oggi Renato ha ben impresso il momento in cui, a 10 anni, ha assaggiato il suo primo pezzo di carne di vitello, e, trovandolo così buono, ha promesso a se stesso che da “grande” avrebbe fatto di tutto per potersi permettere ogni giorno della carne. Così è stato, la sua attività professionale oggi gli ha permesso un agio che prima non era neppure vagamente immaginabile nella mente di quel bambino.
Poi, però, non si può sfuggire alle proprie tradizioni e ai propri ricordi. Così a Roncade, Renato, prima inseguendo un’idea di autoconsumo, poi in modo organizzato, ha creato le Terre di San Rocco, che possono dirsi le custodi della tradizione contadina, interpretate seguendo un indirizzo sempre più vicino al prodotto biologico in tutte le coltivazioni della tenuta, oltre ad avere un assoluto rispetto per la dignità degli animali che lì vengono allevati.
Terre di San Rocco, il coraggio di non omologarsi
All’interno di tale contesto, proprio perché se si ha avuto la forza di scacciare la miseria nulla fa più paura. Renato, sfuggendo dalle facili tentazioni di vivere di Prosecco nel cuore della denominazione che dà vita al vino italiano più bevuto nel mondo, ha deciso di produrre due metodi classici decisamente fuori scala.
Entrambe le bollicine portano due uvaggi di cui anche in Champagne si è quasi perso il ricordo.
Uno Champagne nascosto nella terra del Prosecco
La prima (metodo classico Pinot Bianco brut nature “sur lie“) è un Pinot Bianco che è stato lasciato a riposare sui propri lieviti, ed è per questo che mantiene il suo tappo a corona nella messa in commercio, anziché il classico tappo a fungo. La bollicina in bocca è setosa, appena accennata, non invadente.
Lascia bene il ruolo di protagonista alla complessità del gusto la cui nota di bergamotto, sul palato, e quella di acacia al naso, rendono il vino assolutamente adatto ad accompagnare i salumi più grassi della tradizione di contadina, dalla soppressa alla Luganega Trevisana.
La seconda (metodo classico Maria Vittoria brut nature) è un Pinot Grigio di rara intensità. Per essere accolta nel bicchiere, la bollicina si è vestita di un color cipria, e poi ha stregato il palato facendogli ritrovare tutte quelle promesse che il naso aveva immediatamente già intuito di primo acchito.
Il ribes e la rosa appagano i sensi e raccontano le trame di una storia antica. La bolla, nonostante l’acidità, mantiene quel punto di eleganza e sinuosità che ti spinge a berla senza fretta, quasi che ti accompagni in tempi passati dove il valore del tempo veniva misurato nella possibilità dello stare assieme agli altri.
Guarda la puntata di House of Wine su Maria Vittoria di Terre di San Rocco.
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