Tra i vitigni scomparsi dopo l’alluvione del 1966, la Dorona Veneziana è stata “riscoperta” negli ultimi anni. Tra chi ha saputo valorizzarla al meglio c’è l’azienda Bergamini, ai piedi del lago di Garda
Triveneto, 3 novembre del 1966. L’acqua ha riiniziato a cadere sulle Tre Venezie, però nessuno in quel momento ha cercato un ombrello per coprirsi o degli stivali da pioggia per rimanere asciutto. Dai cassetti della biancheria, dai comodini affianco ai letti, sono stati presi e messi in tasca i rosari. Poi a mezza bocca è stata sussurrata una preghiera al cielo di insegnare loro a camminare sull’acque.
L’alluvione dell’anno passato è subito apparsa poca cosa rispetto a quanto gli abitanti del Triveneto avevano davanti agli occhi. Questo perché nel 1966 le piogge di agosto, settembre, e ottobre sono andate fuori media stagionale, così come fuori stagione è stato anche il riempimento di neve per oltre il 30% dei bacini del Piave e dell’Adige a una quota superiore di 850 metri sul livello del mare. E così la pioggia caduta tra il 4 e il 5 novembre 1966, assieme al repentino sbalzo termico che ha portato ad avere in pianura temperature quasi estive, hanno trasformato quelle premesse nella tragedia annunciata.
Il drammatico novembre del 1966
Nei primi giorni del novembre del 1966, le Tre Venezie sono annegate in appena 55 ore di pioggia ininterrotta. Per intenderci, l’alluvione del 1965, invece, ha avuto 80 ore di pioggia ininterrotta ma senza causare altrettanti danni.
Ad ogni modo, tra il 5 e il 6 novembre il fiume Tagliamento ha spaccato gli argini tra Pordenone e Udine, e il Piave nella parte bassa ha fatto altrettanto.
Ma è stato il Brenta a richiedere un sacrificio ben maggiore a uomini e terre. Perché il Genio Civile per salvare la zona industriale di Padova ha deciso di fare brillare gli argini all’altezza di Campagna Lupia.
E così la povera gente contadina ha rivisto annegare le proprie vite nell’acqua e nel fango. Solo che questo è stato visto la mattina dopo. Prima lo hanno sentito, con l’acqua arrivata loro addosso senza preavviso. Solo l’annuncio disperato delle campane suonate a tamburo battente ha provato ad avvertire del pericolo imminente, perché gli argini sono stati fatti brillare nel momento più buio della notte.
I contadini hanno avuto appena il tempo di portare fuori gli animali e mettere i maiali sui carri, per poi dirigersi in direzione opposta all’acqua. Poco dopo il frastuono dato dalla corsa dell’acqua tra le strade e dentro le case ha anche smesso di far rumore. Tutto ha preso le sembianze di un lago silenzioso in continua ascesa.
L’esondazione del fiume Adige
Anche il fiume Adige è esondato, ma la piena non è arrivata nella parte veneta. La galleria Adige-Garda è stata tenuta aperta dalle 2 del mattino del 4 novembre al mezzogiorno del 5 novembre. Questo ha permesso di scaricare nel Garda una quantità di acqua tale da far crescere il livello del lago di circa 18 cm e così salvare Verona.
Trento, però, è posizionata prima di quella galleria, e così l’Adige ha potuto sommergere la città e sfogarsi contro le case e le persone. I morti accertati alla fine di quei giorni saranno 22 assieme a 500 persone sfollate.
Nei tre anni successivi la Procura di Trento ha provato in tutti i modi a individuare un colpevole, ma alla fine nessuno è stato ritenuto responsabile. Tutte le catene tecnico organizzative di comando hanno fatto il possibile per tutelare la popolazione e il territorio prima, durante, e dopo l’alluvione: ma non c’è stato rimedio all’acqua. Questo perché la natura quando vuole non è governata da nessuno: né dagli uomini né dai tribunali.
Venezia finisce sott’acqua
Ma quello che è accaduto a Venezia è tutt’altra faccenda.
Venezia è una città che vive coi piedi nell’acqua, e per rimanere asciutta ha messo gli stivali.
Così, nel corso dei secoli, davanti a sé, ha costruito una muraglia, prima issata con le tecniche delle palafitte, dette Palade, poi coi Murazzi, un’opera iniziata nel 1744 e terminata nel 1782, costituita da una muraglia continua alta circa 4,50 metri fatta con massi di pietra d’Istria.
La marea astronomica, quella che genera l’acqua alta, poiché governata dall’azione gravitazionale della luna e del sole, ha una evoluzione prevedibile. Poi altri fattori geologici e metereologici possono influenzarla. Ma nel corso dei secoli, l’unica verità veneziana ha sempre stabilito che l’acqua alta arriva col flusso e se ne va col reflusso: il fenomeno non ha mai una durata maggiore di 12 ore.
Nei giorni del 3 e 4 novembre 1966 l’ordine astronomico delle maree si è perso tra le Calle, perché l’acqua alta a Venezia è arrivata per rimanere.
La furia delle onde cancella tutte le difese
Una bassa pressione barometrica, accompagnata da venti di Scirocco a oltre 80 km/h, con raffiche di vento da oltre 92 km/h, hanno gonfiato il mare fino a forza 8 davanti alle barriere naturali, e non, erette a protezione della laguna e della città di Venezia. Poi la burrasca ha bussato, e ha sfondato ampie parti dei Murazzi. Ha sommerso le difese naturali dei litorali di Pellestrina e Cavallino e assieme a loro sono finite sotto l’acqua l’isola di Burano e l’isola di Torcello; l’isola di Sant’Erasmo è scomparsa tra le onde alte 4 metri.
Quella furia ha annullato ogni distinzione tra il mare e la laguna. Nel corso dei secoli neppure le guerre più sanguinose che si sono consumante davanti a quel mare sono riuscite a fare altrettanto: cancellare le difese di Venezia. Adesso la città è in mezzo al mare.
Giorno 3 novembre 1966, ore 22. A Venezia è arrivato il flusso, ma non è arrivato il reflusso dall’alta marea. Alle 5 del mattino del giorno successivo l’acqua alta è arrivata per restare.
Mezzogiorno del 4 novembre 1966. L’acqua alta con un nuovo flusso ha ripreso la sua inesorabile corsa. Venezia ora è al buio, senza elettricità, senza gas e senza telefoni. Non è più possibile camminare fuori: adesso il mare è entrato dentro le case.
Ore 18. La bassa marea non è mai arrivata e Venezia è annegata sotto 1.94 metri d’acqua.
Poi, improvvisamente, alle 21 dello stesso giorno il vento ha smesso di soffiare e l’acqua così come è arrivata, è andata via.
Quel che resta dopo la devastazione
E ciò che è stato restituito alla vista è solo devastazione. Questa la descrizione tratta da Venezia fino a quando? di Giulio Obici: “Nel buio profondo, senza luna, in cui la città era immersa, più che vedere si intravedeva: ecco la sagoma di una barca in una calle, muri listati a lutto da un segno nero di nafta, materassi sedie mobili immondizie sparsi dovunque, colombi e topi morti a ogni angolo di calle, desolazione nelle case a pianoterra. E su questo uniforme e immobile fondale, ecco centinaia di fiammelle, che lo percorrevano senza illuminarlo. I Veneziani, al lume di candela, perlustravano i luoghi della devastazione: eppure sembrava proprio che celebrassero un collettivo, struggente rito funebre sulla loro città agonizzante”.
In seguito, è stato possibile porre rimedio alla devastazione causata dall’acqua ricostruendo Venezia e le sue opere. Però non è stato possibile fare altrettanto con ciò che l’uomo non ha né creato né inventato, ma solo scoperto.
Con l’allagamento di Pellestrina, di Cavallino, dell’isola di Torcello, di Burano, di Sant’Erasmo ai vitigni coltivati in quelle zone è stato tolto prima l’ossigeno, poi la vita, e in definitiva quelle colture hanno abbandonato quei luoghi per non farvi più ritorno.
E così, da dopo quell’alluvione, si è smesso di parlare di alcuni vitigni, e il loro ricordo è rimasto solo nel palato di chi ha assaggiato quelle uve trasformate in vino. Ricordi poi talvolta confidati dal bancone del bar ai più giovani avventori che nulla sanno, e mai avrebbero potuto conoscere di quanto fosse buono quel vino fatto a Venezia. Questo almeno fino al 2012.
E dentro quei ricordi dissolti nei fatti raccontati, un po’ per nome, un po’ per l’originale stile di vinificazione che le è stato impresso, è interessante nuovamente ritornare a parlare dell’uva Dorona Veneziana. Uva nei secoli presente, con fasi alterne, in tutte le Tre Venezie, uva che ha portato e porta il nome di Venezia, vitigno poi scomparso dopo l’alluvione del 1966.
La riscoperta della Dorona Veneziana
La Dorona Veneziana è un’uva bianca, dalla buccia molto spessa, che nel tempo è stata utilizzata sia come uva da tavola, sia come uva da vinificazione. A Venezia, i luoghi prediletti per la sua coltivazione sono state le isole, come l’isola di Burano o l’isola di Torcello, e il litorale dai terreni sabbiosi di Cavallino e Pellestrina.
Il Consorzio Vini Venezia, con l’idea di riscoprire la viticoltura locale, partendo da quei posti, ha intrapreso un programma di esplorazione, analisi e poi recupero delle viti, e dei vitigni dimenticati dopo l’alluvione.
E il primo posto in cui sono andati a cercarli è stata una chiesa. Ma non per ricevere la grazia di un miracolo, ma perché tra gli strumenti di lavoro eucaristici la vite è da sempre indispensabile per la celebrazione del rito della messa. Così, se ci si trova a Venezia, dietro a ogni sacrestia è ancora possibile imbattersi in un orto al cui interno, per tradizione, convivono con gioia cristiana le diverse colture orticole, coltivate ai piedi di alberi da frutto, che a loro volta vengono abbracciati dai filari delle viti.
In questi luoghi, durante il triennio 2010-2012, è stato mappato il profilo genetico delle viti ritrovate, ed è stato così possibile individuare 23 profili molecolari conosciuti di Vitis Vinifera L. e tra queste è stata ritrovata la Dorona Veneziana.
E prima ancora, nel triennio 2008-2010, la coltivazione di questo vitigno è stata sperimentata nei Colli Euganei e nell’Isola veneziana di Sant’Erasmo per valutarne l’idoneità alla produzione.
E il 3 marzo 2012 la Dorona Veneziana, su iniziativa della Regione Veneta, è stata iscritta al Catalogo Nazionale della Vite e del Vino diventando nuovamente idonea alla coltivazione in tutto il Triveneto, nelle IGT Trevenezie, Veneto Orientale, Venezia.
Il Pagus Claudiensium: un vino dallo stile unico
Un interessante stile di vinificazione di questa uva è possibile trovarlo ai piedi del lago di Garda, a Lazise, già nella provincia Veronese, dove l’azienda Bergamini ha pensato di vinificare l’uva bianca in rosso lasciando il mosto a contatto con le vinacce per arricchirsi dei colori, profumi, aromi della buccia. Insomma, un orange wine.
Il risultato è un vino, il Pagus Claudiensium, con percezioni di tabacco da pipa, resina, pan di spagna e albicocca. Un prodotto corposo, elegante e strutturato, tanto originale da lasciare il segno fin dal primo assaggio e da colpire per la complessità e piacevolezza. Ottimo per accompagnare piatti di pesce, formaggi stagionati e salumi. Ma anche come vino da gustare in una serata tra amici, lasciandolo evolvere nel bicchiere per coglierne tutte le sfumature.
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