Il miracolo del Lugana. Lo scorso anno ha raggiunto la quota record di 22 milioni di bottiglie prodotte, risultando ancora una volta uno dei vini italiani con più forte vocazione all’export (oltre il 70% è destinato ai mercati esteri). Ma per il vino Lugana, la cui uva nella vendemmia 2019 si è confermata tra le più preziose in Italia tra quelle a bacca bianca, con una quotazione anche oltre i 200 euro a quintale, il successo e i riconoscimenti sono arrivati solo una volta raggiunta la maturità.
Frutto di un territorio e di un terreno non facile, in passato occupato da aree paludose, con una zona di produzione che abbraccia l’area del basso lago di Garda e che fa da cuscinetto tra le province di Brescia e di Verona (è una delle poche DOC interregionali, Ndr), fino a vent’anni fa questo vino bianco figlio del vitigno autoctono Turbiana e dalle caratteristiche più mitteleuropee che mediterranee non era certo campione di vendite. Quanto successo a partire dall’inizio degli anni Duemila, con la crescita progressiva della popolarità, delle vendite sui mercati esteri e la definitiva consacrazione nell’ultimo decennio, nel corso del quale il numero di bottiglie prodotte è quasi quadruplicato, ha quindi del miracoloso.
Questa, infatti, non è mai stata una terra facile. Tanto che fino agli Ottanta quasi tutte le aziende del territorio erano principalmente cerealicole e zootecniche. Quel poco di terreno che si destinava a vigneto era per una produzione rivolta innanzitutto ai turisti che frequentavano il Garda.
La svolta arriva nel 1990 con la nascita del Consorzio tutela Lugana DOC. Il cui ruolo è stato cruciale per la valorizzazione dell’export di un prodotto che sul mercato italiano faticava a essere apprezzato.
Quella di puntare sull’estero fu dunque una scelta naturale, visto che in Italia il vino non si riusciva a vendere. E per conquistare i mercati stranieri si partì dal turismo, in maggioranza tedesco, che sul lago trascorreva le proprie vacanze apprezzando i prodotti gastronomici ed enologici locali.
In un’epoca in cui ancora i voli low cost non esistevano ed in cui il turismo tedesco sul Garda arrivava quasi totalmente con gli autobus, quest’idea si rivelò azzeccata. Al punto che le aziende registravano ogni anno anche decine di migliaia di presenze in cantina.
Questo spirito di iniziativa era lo stesso che animava il Consorzio, che decise di funzionare più come azienda che come sindacato. E che, oltre a cavalcare il successo turistico e andare a caccia di nuovi mercati, riuscì anche a posizionare il vino sul mercato in maniera adeguata.
Una strategia, quest’ultima, per la quale a cavallo del 2000, ad esempio, fu deciso di “far sparire” dal mercato 10 mila quintali di uva all’anno per non farne cadere il prezzo, mossa che contribuì a far passare il messaggio della ricerca della qualità, che nel giro di pochi anni avrebbe fatto la fortuna del Lugana. Da lì al boom il passo fu infatti breve. Tanto che la richiesta di Lugana negli ultimi vent’anni anni è sempre cresciuta, conquistando nel tempo sempre più mercati all’estero, soprattutto in Giappone, Nord Europa e Nord America.
Niente male per una Denominazione che ha saputo valorizzare al massimo il legame con il territorio. E che grazie alla scelta coraggiosa delle aziende di continuare a fare Lugana anche quando il pubblico chiedeva altri vini è diventata uno dei più importanti ambasciatori a livello internazionale del patrimonio vitivinicolo Italiano.
Un vino geniale. Anche per le caratteristiche uniche che lo rendono immediatamente riconoscibile ai suoi tanti estimatori.
Libero, 31 marzo 2018 (rivisto e aggiornato il 15 luglio 2020, Ndr)