Ogni mese c’è un suo romanzo in classifica, ma i veri geni non si montano la testa. Ora ci spiega perché ha deciso di tornare a curare i suoi pazienti alle prese con l’emergenza Covid
Risponde al telefono dall’ambulatorio (di Bellano, ovviamente). E la prima domanda viene spontanea.
Ma come, Andrea Vitali, non aveva appeso il camice bianco al chiodo per fare solo lo scrittore?
“Puro volontariato, il mio. Ho ricominciato in primavera sostituendo un collega in quarantena. Non sono certo un eroe, ma in tempi di emergenza sanitaria non potevo tirarmi indietro. E così offro un aiuto con le vaccinazioni influenzali, passo qualche ora in ambulatorio o a visitare i miei vecchi pazienti. Faccio il tappabuchi, insomma”.
Come sta vivendo, da medico, questa pandemia?
“Qui a Bellano, la situazione è abbastanza sotto controllo quanto a contagi. Piuttosto mi preoccupa la tenuta psichica di tante persone. Noto in generale un certo cedimento, una stanchezza, un notevole livello di sconforto. Non tanto per le restrizioni, che vanno e vengono e questo comunque non aiuta, ma per la cappa di tristezza che s’è creata. Qui, poi, l’atmosfera non aiuta, tra il lago che in questa stagione non trasmette allegria, e la ricorrenza di un mesto Natale che si avvicina. C’è poco da festeggiare, ecco”.
Questo Covid ha cambiato anche lei?
“Come tutti. In primavera s’era affrontato il virus con serietà, ma con la speranza che l’estate potesse spazzarlo via. Ora, manca la fiducia. Sì, arriverà il vaccino, ma mi chiedo quando e come. Sarà effettivamente sicuro e risolutivo? Spero tanto che la ricerca e la tecnologia siano riuscite nel miracolo di produrlo in soli nove mesi”.
Che cicatrici lascerà questo disastro sanitario?
“Saranno i più giovani a risentirne, la ferita lascerà cicatrici indelebili soprattutto a livello psichico. Il virus ha tolto loro una parte di vita. Distanziati a scuola, isolati a casa, pagheranno questa socialità rubata. Io di disagio mentale mi sono sempre occupato, non sono ottimista”.
E da scrittore laghée di bestseller, come vive? Scriverà mai un romanzo sull’amore ai tempi del virus?
“Un vero e proprio romanzo non credo. Piccole riflessioni e articoli, come quelli che sto scrivendo per un quotidiano nazionale, sì. Mi immagino di quando, in primavera, torneremo a sederci sulle panchine vista lago e non ritroveremo più gli anziani che erano ospiti fissi. O parlo della caccia al vaccino, ricordando di quando, ai primi tempi della comparsa del Viagra, si andava di nascosto in Svizzera ad acquistarlo. Cose così”.
E arriviamo a Bellano. Dove lei ha ambientato una quarantina di romanzi. Non è ancora stanco? Non vorrebbe fuggire?
“Fuggire mai, perché io amo questo posto e questo lago. E poi chi mi conosce sa quanto io sia sedentario. Odio le vacanze, se mi allontano da qui dopo due giorni ho voglia di tornare. Le mie giornate sono tutte uguali. Al mattino scrivo, al pomeriggio leggo, verso sera torno a scrivere. Non amo neanche i social, o meglio non sono capace di usarli. Adesso sono tornato a fare un po’ il medico, ma la vita movimentata è ben altro. Questa è la mia casa. Un piccolo mondo che rispecchia un mondo più grande. Perché i miei personaggi hanno caratteristiche, difetti e pregi universali”.
Ma quanti libri ha scritto? La sua è una produzione a dir poco prolifica. Solo quest’anno è in libreria con quattro nuove uscite.
“Mah, non li conto. Saranno una quarantina i romanzi con collante Bellano. Non mi chieda quanti milioni di libri ho venduto perché non lo so (lo diciamo noi, almeno 4 milioni, Ndr.). Poi ci sono i racconti con i Vitali, padre e figlio, e le quattro fiabe per bambini, ora per Natale in libreria c’è “La zia Ciabatta”. E sempre quest’anno ha scritto pure un noir che, strano a dirsi, con Bellano non c’entra nulla”.
“Il metodo del dottor Fonseca”, pubblicato da Einaudi. Un’indagine a tinte horror in un paesino sperduto a 1700 metri. Come è nato?
“Ci pensavo da molto tempo. E’ nato da due vecchie suggestioni. Vent’anni fa in Val Bregaglia mi colpì durante una passeggiata l’incombere del buio e della notte. Un senso di panico che ho riversato nel romanzo. L’altro ricordo inquietante è stata la visione di un maiale che si dibatteva con la testa incastrata in un secchio. Chi ha letto il libro si ritroverà in questi incubi. Comunque, tranquilli, non ci sarà un seguito. L’investigatore protagonista non diventerà mai un nuovo Salvo Montalbano. Per mantenere in vita un personaggio seriale bisogna avere una potenzialità creativa che non ho. I lettori lo capiscono quando il narratore non è ispirato e non amano farsi prendere per i fondelli”.
Eppure, il suo maresciallo Maccadò è tornato spesso nei suoi romanzi lariani.
“In “Nessuno scrive al federale” sì, è tornato. Ma anche in quest’ultima opera per Garzanti, la mia casa madre, non c’è un vero protagonista. Sono tanti, come sempre, i personaggi che si avvicendano nella storia”.
Ma non ha mai pensato, dopo 35 anni, di prendersi una pausa dalla scrittura?
“Tutte le volte che lo penso, anzi che me lo impongo, ecco che mi arriva l’idea buona e devo rimettermi al lavoro. Infatti, per non smentirmi, sto finendo un nuovo libro, un ampliamento di un racconto scritto anni fa con il pittore Giancarlo Vitali. E non è finita: uscirà in estate un’altra sorpresa: una storia che è sempre ambientata sul mio lago di Como, ma che svela però il lato, noir, oscuro, sofferente di Bellano. Io che sono conosciuto per i ritratti divertenti, macchiettistici della gente del posto, questa volta parlo di disagi e di tragedie vere”.
Non è che tanta sofferenza causata dal Covid l’ha contagiata?
“E’ probabile, sì. Un libro così prima non l’avrei scritto. Io vivo molto di suggestioni, di emozioni, di empatie. E adesso non mi va di scrivere in modo scanzonato mentre il virus miete migliaia di vittime. Tornerà il tempo della leggerezza, spero. Ora c’è poco da scherzare”.