Giulio Rapetti Mogol, il più grande paroliere italiano, saluta la rinascita della storica casa discografica Numero Uno. Ma, a 84 anni, non vuole vivere di nostalgia e ha ancora due missioni: fare crescere nuovi talenti musicali e aiutare il mondo dello spettacolo.
Che effetto fa, Mogol, tornare a quando la musica era un’avventura?
“Sono bellissimi ricordi, anche se con me la nuova etichetta non c’entra più nulla. La Numero Uno la fondai io cinquant’anni fa. Erano tempi incredibili, la musica era davvero un’emozione che contagiò tutti, da Lucio Battisti che si unì nel 1972, a Mara Maionchi, la nostra giovanissima addetta stampa. Era lei che si occupava di promozione ed era un vero portento. Sa quale era il nostro segreto?”.
Cosa, l’entusiasmo?
“Sì, anche quello. Ma soprattutto la competenza, i cantanti non nascevano per caso. Mara era una bomba per tenacia, io quello delle decisioni intuitive nello scoprire nuovi talenti. Il nostro primo disco, “Questo folle sentimento”, andò in classifica perché Mara riuscì a convincere Vittorio Salvetti a sceglierlo come sigla del Festivalbar”.
E poi ecco lui, Lucio Battisti. Il vostro sodalizio ha fatto la storia della musica italiana. Sarà anche stanco di sentirselo dire. O no?
“Beh, è stato un legame irripetibile. Anche se io ho scritto qualcosa come 1.500 testi per moltissimi grandi artisti. Con Lucio, comunque, fu l’alchimia perfetta, anche se eravamo diversissimi, lui così riservato, io estroverso. Ma quando ci trovavamo scattava la magia. Lui mi portava la musica, partendo da quella io trovavo le parole: una totale sintonia, questa è stata la chiave del successo durato dieci anni”.
E’ proprio di 40 anni fa il vostro ultimo album insieme, “Una giornata uggiosa”.
“Sì, nacque in Brianza, a Molteno, eravamo vicini di casa. A proposito, destò scalpore quella frase nel testo, “fuggire via da te Brianza velenosa”, ma io non ce l’avevo con questa terra dove Battisti visse per gli ultimi 25 anni della sua vita, mi riferivo al disastro della diossina di Seveso”.
E’ vero che la vostra collaborazione finì per una questione di soldi?
“Da parte mia fu una questione di principio, legata ai diritti delle canzoni create insieme. Io non ho mai dato importanza al denaro. La prova è che da 28 anni faccio lezioni nella mia scuola di musica e non ho mai preso un soldo”.
La scuola: dicono che il suo orgoglio sia avere scoperto migliaia di giovani talenti.
“Sì, il Centro europeo di Toscolano è il mio orgoglio più grande, il mio regalo all’Italia. Immersa nella campagna umbra, dove abito, è la scuola no profit per giovani musicisti, un vero centro universitario, altro che talent show. Abbiamo in cantiere una grande serata evento su Rai 2 con protagonisti i miei allievi. Ovviamente quando questa emergenza sanitaria finirà”.
Già, lei è anche presidente della Siae. I numeri dei mancati incassi del settore dello spettacolo a causa del Covid sono da profondo rosso.
“Numeri che danno il senso del dramma che sta vivendo il mondo della cultura e degli eventi, dal cinema al teatro ai concerti, con un calo nei primi sei mesi dell’anno del 64,18%. Un milione e mezzo di eventi in meno a causa di questo virus. E ora ci risiamo, quindi a fine anno la perdita economica sarà enorme. Stiamo cercando rimedi, ma non sarà facile. E’ la morte del diritto d’autore. Per aiutare molti dei nostri 90mila associati ridotti alla fame abbiamo dovuto addirittura donare pacchi viveri”.
Come uscirne?
“Serve che la direttiva europea sul copyright approvata dal Parlamento europeo diventi realtà nella nostra legislazione. Altrimenti si soccomberà allo strapotere dei miliardari americani e a tutte le grandi piattaforme digitali”.
Lei era e resta contrario, però, alla riapertura delle sale e delle discoteche?
“Dobbiamo innanzitutto fermare i contagi, sarebbe un errore riaprire come è stato fatto quest’estate. Ora ne paghiamo le conseguenze. Questo virus fa paura, è più pericoloso di quanto sembri, dobbiamo adottare tutte le precauzioni. Vinceremo la battaglia? Lo scopriremo solo vivendo”.