Dai video su twitter per #designinpigiama al libro geniale che racconta gli oggetti che ci hanno cambiato la vita. L’autrice ci insegna a sorprenderci anche di ciò che usiamo (o vediamo) tutti i giorni.
Cosa hanno in comune il Bacio Perugina, la bottiglietta del Campari e l’Ape Piaggio? Sono tre dei 74 oggetti che ci hanno cambiato la vita. O che comunque tutti, ma proprio tutti, conoscono. Chiara Alessi – docente di design, giornalista e curatrice di mostre – le racconta nel saggio Tante care cose, edito da Longanesi, che poi è nato dalla serie di video su Twitter che l’ha tenuta impegnata per tre mesi nella primavera del lockdown 2020.
Chiara Alessi, prima il successo di #designinpigiama, poi questo libro, impreziosito dalle illustrazioni di Paolo D’Altan, in cui fa parlare gli oggetti, o semplicemente le cose a noi care.
“Tutto è cominciato nel marzo di un anno fa, quando ero chiusa in casa come tutti illudendomi che fosse una situazione temporanea. Giorno dopo giorno, per tre mesi, ho raccontato su Twitter, in video di due minuti e venti secondi, gli oggetti della storia del Novecento. Oggetti firmati, ma anche anonimi, grandi come un Autogrill o piccoli come una biglia, ma che comunque erano entrati nella nostra vita e che avevano una storia da raccontare. Pensavo di farne una sorta di archivio personale, ma poi questa mia rubrica, che ho appunto chiamato Design in pigiama, ha avuto un grande successo, con milioni di visualizzazioni e la creazione di una vera community. Ho capito così che c’era tanto interesse nei confronti delle mie lezioni, anche se non mi piace chiamarle così. E l’interesse è scattato anche nella casa editrice Longanesi che mi ha proposto di farne un libro”.
Un libro che è una chicca. Sembra che le sue tante care cose parlino dalle pagine. Come è stato passare dai video alla carta?
“I 90 oggetti sono diventati 74, una selezione era necessaria. E comunque, grazie ai disegni di un grande illustratore come Paolo D’Altan e a un carattere che ho voluto più divulgativo che per addetti ai lavori, il libro è diventato una chiacchierata informale, ma documentata, su ciò che in Italia, paese geniale per il design, siamo riusciti a costruire nel corso del secolo scorso”.
Però nella prefazione viene precisato che non è un libro sul design, o almeno non solo sul design. Giusto?
“È un museo virtuale alla portata di tutti. E sì, è anche un libro su grandi prodotti del design, che però racconta soprattutto di persone, di idee, di colpi di genio e di fallimenti. Non tutte le invenzioni hanno un padre o una madre famosi, o conosciuti, ma tutte sono state progettate da qualcuno. Gli oggetti in queste pagine sono appunto tante care cose, perché ci hanno accompagnato nella nostra vita e continuano a farlo”.
Veniamo a qualche esempio?
“Inizio con una cosa piccola come una palla da biliardo, di cui non si conosce l’inventore (ed era l’oggetto preferito da Ettore Sottsass), e finisco con l’oggetto di design più grande che mi è venuto in mente: il traliccio dell’alta tensione per l’Enel di Michele De Lucchi e Achille Castiglioni. Nel mezzo, un universo caro alla memoria collettiva: dalla Vespa alla 500, dall’Ape Piaggio alla Panda di Giorgetto Giugiaro (e ne elenco i dieci motivi per cui è una grande opera di design), dalla bottiglietta della Cedrata Tassoni alla spillatrice della Zenith che venne insignita di una segnalazione nel 1954 nella prima edizione del Compasso d’Oro, vinta dalla Lettera 22 di Marcello Nizzoli per Olivetti, dai Moon Boot di Giancarlo Zanatta alla lampada Tizio per Artemide. Sono davvero tanti gli oggetti, impossibile qui elencarli tutti”.
E poi anche scritte, loghi, bozzetti, grafica. Tutto ciò che vediamo ancora oggi girando per le città.
“Il cane a sei zampe dell’Eni, la doppia M della metropolitana milanese, la P allungata come una fionda della Pirelli, la S lunga del noto supermercato, il logo della Rinascente, quello della Rai nel 1954 con la T incuneata nella V. E ci sono cose ora comuni come la rivoluzionaria zip, o altre che teniamo ancora sulla mensola del bagno come la bottiglietta del Bialcol. Ma anche cose grandi, grandissime, come i primi Autogrill Pavesi, nati negli anni Cinquanta e luogo di salvezza per le famiglie cariche di bambini che nel viaggio verso la vacanza non facevano altro che ripetere “quanto manca?”.
Il bello è che di ogni capitolo fa un piccolo romanzo. E infatti il libro scorre via che è un piacere, tanto è divertente (ri)scoprire segreti e curiosità.
“L’intento era appunto quello di non fare un’operazione nostalgia, anche se la mia ricerca riguarda il Novecento. Nulla di vintage. Anche il linguaggio che uso non è tutto uguale. Per la zip è un manifesto futurista, per la 500 una vera e propria ode”.
Resta il fatto che pur non essendo un libro di design, lei parla anche dei famosi maestri che l’Italia ha avuto in questo campo. Non è un caso che la Triennale di Milano ospiti due grandi retrospettive: su Enzo Mari e ora su Vico Magistretti.
“È inevitabile che proprio la Triennale dedichi spazio ai grandi designer italiani, di cui abbiamo in Italia un archivio incredibile. Un patrimonio che tutto il mondo ci invidia. Penso che mostre come queste siano non solo doverose – quella del milanese Magistretti cade nel centenario dalla nascita – ma anche rassicuranti in un momento, è vero, in cui il design è ben lontano dai tempi d’oro degli anni che ripercorro nel libro. Mi chiedo a volte cosa rimarrà in questo campo di questi primi anni venti di questo secolo. Ma il discorso si farebbe lungo. Dico solo, e lo scrivo, che il genio senza visione imprenditoriale non mette radici e che, di contro, la tenacia commerciale e l’intraprendenza economica senza creatività non portano progresso. Serve un mix geniale, ma la crisi nata ben prima della pandemia non aiuta”.
A parte il racconto di un bisnonno che dal filtro della cenere per il bucato immagina la moka, il libro non ha quasi nulla di autobiografico. Eppure, lei è bisnipote d’arte…
“Sì, di Giovanni Alessi e di Alfonso Bialetti. Ne parlo nel capitolo dedicato alla moka e in cui apro una parentesi su alcuni aneddoti tramandati in famiglia, come quando il mio bisnonno Alfonso al capezzale della moglie malata le disse nel suo dialetto piemontese. “Custa machinèta sarà la nostra fortuna!”.
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