Giulio Larcher ed Enrico Malfatti, amici dall’infanzia, hanno scelto di produrre vino sopra Ala, in Trentino, in una zona impervia abitata da lupi e cerbiatti. Il risultato sono vini di straordinaria ampiezza e concentrazione
1900. Brentonico, piccolo comune del Trentino, casa di ringhiera. Chi ti vive affianco è più di un parente. A volte per caso, a volte per scelta, quelle amicizie durano tutta la vita e oltre. Perché quelle case, poi, passano dal padre ai figli, dalla madre alle figlie, e via via secondo i vari intrecci parentali fino all’ultima generazione presente.
Invece, poco più in là, sopra Ala (sempre in Trentino), in un posto isolato, invisibile agli occhi, senza una vera strada, costruito sopra terra e roccia c’è un “Maso chiuso” che ha rinunciato a qualsivoglia forma di integrazione con gli altri. Il Maso è stato costruito per soddisfare il fabbisogno di due famiglie isolate dal resto del mondo che hanno deciso di bastarsi a vicenda.
I Masi chiusi del Trentino
Nel corso degli anni 60 quel “Maso chiuso” è caduto in rovina ed è rimasto là, abbandonato, a indugiare sul terreno. Quello scheletro disadorno è un po’ il ricordo di quel sistema economico medievale fondato sul principio maggiorasco in base al quale il primogenito maschio avrebbe ereditato il maso chiuso indiviso in caso di successione. Concetto, poi, in qualche modo riproposto con la legge provinciale 33/78 di Bolzano, in base alla quale se nessuno degli eredi fosse cresciuto nel Maso, il criterio di prevalenza nell’assegnazione dell’eredità tra fratelli e sorelle avrebbe scelto in preferenza l’erede maschio. La Corte costituzionale con la sentenza 193/07 ha poi messo fine a questa disuguaglianza dichiarando l’illegittimità costituzionale della norma provinciale che aveva dato preferenza ai maschi nei confronti delle femmine nelle successioni ereditarie dello stesso grado.
Ma tutto questo a Brentonico non è accaduto. E, nonostante lo scorrere degli anni, nelle case di ringhiera si è continuato a vivere di convivialità e di tante chiacchiere. Tanto che, complici due nonne, Giulio Larcher ed Enrico Malfatti, senza saperlo, non si sono mai persi di vista.
In viaggio dal Trentino alla Nuova Zelanda
Giulio è sempre stato un bambino smilzo smilzo, capelli ricci, corti, gambe sottili e veloci. A Brentonico andava in vacanza e nel gruppo degli amici c’era Enrico, un capellone con il naso rivolto verso il cielo a guardare gli aerei volare.
Il primo, dopo studi classici si è ritrovato a fare Economia e commercio in Bocconi a Milano, dove si è concentrato sulle partite contabili del dare e dell’avere capendole molto bene.
L’altro, Enrico, in quegli anni ha continuato a vivere con il naso all’in su. Avrebbe voluto fare il pilota di aerei. Poi, quando gli hanno spiegato che in aria con gli occhiali quel percorso non lo avrebbe potuto fare, si è immerso nelle tradizioni di famiglia, la campagna e la vite, fino a diventare enologo. Certo, poi la passione per il volo in lui non si è mai sopita, al punto da volare fino in Nuova Zelanda, il posto più lontano da raggiungere in volo se si parte da Brentonico, per vedere come si comporta il Pinot Nero.
Sia come sia, dopo gli anni della formazione entrambi sono ritornati in Trentino. Giulio, mettendo a frutto le partite di dare e avere, ha avviato un’impresa di costruzioni con cui ha ristrutturato e venduto immobili, senza mai tenerne uno per sé. Enrico, invece, ha iniziato il lavoro di enologo presso alcune cantine della zona.
Non molto tempo dopo, però, Giulio ha capito che ristrutturare e vendere case non poteva essere il lavoro di una vita. Se hai fatto studi classici e hai passato l’adolescenza a tradurre e approfondire le tragedie greche e i discorsi di Cicerone, di quell’infinito tempo molle qualcosa ti rimane addosso. E se quello che fai inizia e finisce in un anno commerciale di 360 giorni, esiste la seria possibilità che possa non bastarti.
La stessa cosa è accaduta per Enrico. Se pensi che possa essere una buona idea finire in Nuova Zelanda per vedere come si comporta il Pinot Nero e per il gusto di volare, forse, forse rischi di essere poco compreso nel lavoro quotidiano nelle cantine locali trentine.
Il sogno di occuparsi della vite e del vino
Così, un giorno qualunque, senza essersi in realtà mai persi di vista nelle chiacchiere dei pianerottoli della casa di ringhiera di Brentonico, entrambi all’apparenza molto diversi, Giulio, non più lo smilzo di un tempo, ed Enrico, con in testa per lo più il ricordo di una chioma vaporosa, rivedendosi hanno presto capito che le cose sarebbero potute andare anche in un altro modo.
Perché Giulio l’idea di occuparsi della vite e del vino l’aveva accarezzata già diverse volte. Ed Enrico avrebbe voluto scoprire l’ebrezza del volo senza paracadute magari con un’attività professionale di consulenza. E così, partendo entrambi dallo stesso punto di vista, l’idea di Giulio ha iniziato a prendere corpo in modo razionale: bisogna prima trovare dell’uva da spremere.
In Trentino, la viticoltura nella valle si sviluppa lungo il fiume Adige. Prima di aprirsi nella piana Rotaliana posizionata più a nord di Trento, la valle dell’Adige è stretta e lunga: attorno ha solo montagne. Raramente la viticoltura si sviluppa su quelle montagne perché, non vivendo quasi nessuno in quei luoghi, là i costi fissi del coltivare la vite sono esorbitanti e d’impossibile contenimento. Questo perché l’assenza di abitazioni significa assenza di rete elettrica e idrica; significa accedere a posti privi di strade asfaltate. Significa che la cura della vite e la vendemmia, quando è il momento, hanno tempi lenti, e capita che il tempo atmosferico non abbia la pazienza necessaria per attendere la raccolta dell’uva prima di scaricare a terra acqua, pioggia, vento e grandine. Significa anche che quando arrivano le gelate primaverili sulle viti, il poter generare calore in un posto privo di qualsivoglia infrastruttura di servizio è faccenda complicata. Un po’ come raffreddare gli ambienti in estate avendo a disposizione solo un ventaglio (rotto).
E significa ancora che su pendii verticali con 40°di pendenza di media, la raccolta dell’uva deve essere fatta a mano, compito più adatto a scalatori che a viticoltori. Insomma, lo sviluppo della viticoltura trentina ha certamente avuto un senso e il suo progredire lungo l’Adige le ha permesso una crescita razionale che ha evitato buona parte degli ostacoli sopradescritti.
La sfida del maso chiuso abbandonato
Tali e tanti ostacoli, però, nella visione di Giulio non hanno inciso sulla scelta di dove poter coltivare la vite perché le chiacchiere a mezza bocca nei dintorni di Ala, e quelle parole dette sottovoce che raccontavano storie di persone, viti e “Masi chiusi” abbandonati, hanno rappresentato per Giulio una tentazione irresistibile. E così, seguendo quelle chiacchiere, ha scoperto che sopra la montagna di Ala c’era un posto in cui l’Istituto Agricolo San Michele aveva sperimentato la coltivazione di Pinot Nero attorno a un Maso chiuso abbandonato dagli anni 60.
Quando Giulio ed Enrico hanno raggiunto quel luogo per la prima volta, guardandosi attorno, si sono chiesti se fosse davvero possibile coltivare la vite e fare del vino nel mezzo bel del nulla. E ciò che è stato possibile fare, lo è stato solo dopo un improbo lavoro di riassetto della zona. Perché appena arrivati Giulio ed Enrico hanno trovato davanti a loro solo muri di roccia, poca terra, nessuna goccia d’acqua, nessuna strada, e le luci delle stelle a fare da lampioni per illuminare i rari filari di vite impiantati in precedenza da San Michele. Poi soltanto lupi e cerbiatti.
Oggi l’esito di quel lavoro ventennale sulle viti ha portato a una perfetta parcellizzazione degli impianti, organizzati, ordinati, sempre su terreni scoscesi a 40° di pendenza, sempre senza una goccia di acqua in aggiunta ai capricci del tempo, sempre senza elettricità e ancora senza una vera strada. Entrare adesso nella tenuta Maso Corno e visitare quei posti ricorda tanto Jurassic Park. Ci si arriva solo su invito, solo un cartello rosso indica l’ingresso della tenuta, poi il nulla, solo montagne alberi e in mezzo le viti, splendide e floride, attorno allo scheletro disadorno (ma solo per ora) del Maso chiuso in precedenza abbandonato.
Quel vino che nasce tra i lupi e i cerbiatti
Una volta risolto il tema delle uve da spremere, Giulio ed Enrico hanno finalmente potuto occuparsi del vino. E per capire la filosofia che si trova dentro quel bicchiere è necessario ritornare ai lupi e ai cerbiatti che popolano quei boschi.
Lupi e cerbiatti non sono buoni amici. I primi cacciano e i secondi scappano, e capita che vadano a trovare riparo dentro la tenuta recintata di Giulio. I cerbiatti lì trovano protezione e nutrimento. Peccato che non si nutrano solo di erba ma anche di frutti, e quando l’uva è matura ne diventano ghiotti. E se si ha una vigna questa non è una buona notizia, perché sono capaci di mangiarne anche un quintale in poco tempo.
La mancanza di quell’uva, sommata alla fatica per produrla, sono certamente un bel problema, ma Giulio ed Enrico quel problema hanno deciso di affrontarlo accettando la convivenza con tutto quello che sta loro attorno. Non avrebbe senso scacciare i cerbiatti o gli altri animali con l’idea di isolarsi da tutto il resto. Molto meglio imparare a vivere assieme, tollerando anche l’altro e trovando un equilibrio con la natura, perché in fin dei conti lo scheletro del precedente Maso chiuso rappresenta un monito rispetto a ciò che comporta lo sfruttamento delle cose assieme all’ostinato isolamento.
La filosofia: un’orchestra nel bicchiere
È grazie a questa filosofia che dentro al bicchiere è possibile trovare un’orchestra capace di suonare tutte le note del vino senza sacrificarne o preferirne una all’altra. Nel lavoro che viene fatto in vigna, durante la vinificazione, nel lungo tempo dell’attesa della messa in commercio, il vino sviluppa indistintamente tutte quelle caratteristiche conseguenti ogni passaggio senza che ci sia da parte di Giulio o Enrico la volontà di imporre uno stile che vada a comprimere o artificialmente ad amplificare specifiche caratteristiche, ovattando le altre.
I vini della Tenuta Maso Corno sono caratterizzati da una concentrazione unica, frutto della filosofia produttiva e del terroir. Un vero pranzo di nozze nel bicchiere. Villanova (Chardonnay) e Declivi (Sauvignon Blanc) sono quasi vini masticabili. Il primo strega il naso anche con inaspettati sentori di pietra focaia e grafite. Il secondo mantiene ferma la nota varietale di foglia di pomodoro arricchendola in esatto equilibrio con note aromatiche e fiori di sambuco.
Gli spumanti della Tenuta sono indimenticabili per l’ampiezza in bocca. Dopo ogni sorso, passando la lingua sotto il palato, si ha la sensazione di raccogliere generosi cucchiai di panna fresca e burro.
Eppoi il Pinot Nero della Tenuta. Vinificato in barrique e tonneau: lì dentro si può trovare tutta la strada che è stata fatta per arrivare fino alle vigne. Il frutto rosso è accompagnato da una nota di fumo e da una chiusura in bocca di spezia piccante che rende quel bicchiere semplicemente esatto nel permettere a chi beve di comprendere tutte le sfaccettature del vino.
È l’equilibrio tra il tutto a rendere quel vino differente. Insomma, quel Pinot nero per caratteristiche organolettiche si distingue dagli altri perché è stato fatto e pensato per essere espressione di quel territorio.
Di quel Pinot nero sarà sempre riconoscibile la provenienza e questo fatto merita davvero un encomio perché ultimamente il mercato ha la tendenza a premiare vini di “cantina” che annullano qualsivoglia espressione del territorio e distinguibilità, facendo sì che un Pinot nero coltivato in Toscana, in Lombardia o in Sicilia, una volta versato nel bicchiere dissolva tutta la sua tipicità e sembri provenire da un identico e indistinto territorio generato dalla stessa mano invisibile che rende nel mercato un po’ tutti i vini largamente simili gli uni agli altri.
Giulio ed Enrico questo hanno scelto di non farlo. E noi gliene siamo infinitamente grati. Chapeau.